Anche il Regno Unito al voto, ormai l’Europa è l’unico “laboratorio democratico” in campo

Mentre negli Stati Uniti, Russia e Turchia si affermano le “democrazie immobili” che fanno leva sull'uomo solo al potere, l'Europa si prende la sua rivincita politica con la partecipazione e il voto

Theresa May si è arresa e ha convocato le elezioni politiche anticipate, riconoscendo che senza un mandato elettorale preciso è impossibile avviare la trattativa per la Brexit. La Gran Bretagna andrà alle urne l‘8 giugno, e sarà un’altra consultazione ad alto tasso di incertezza, con tutte le opzioni aperte, perché è persino possibile che il voto indebolisca ulteriormente il fronte governativo e allarghi il solco già enorme tra l’Inghilterra, la Scozia e l’Irlanda. In Francia siamo alla vigilia di una consultazione altrettanto imponderabile, con quattro candidati, diversissimi tra loro, stretti in cinque punti percentuali e tutte le evidenze dell’antivigilia spiazzate dalla rimonta del socialista Jean-Luc Melenchon e dalla tenuta del gollista Francois Fillon, i quali insidiano a sorpresa il duello fra Emmanuel Macron e Marine Le Pen.

In questa prospettiva, inquadrata nel contesto delle “democrazie immobili” delle superpotenze e delle medie potenze regionali a loro collegate, l’Europa appare al contrario come un grande e ribollente laboratorio di opinioni e scelte elettorali. Un posto dove, oltre ogni giudizio di valore, la politica cambia ancora le cose, perché è possibile – ad esempio – che la Gran Bretagna saluti e se ne vada per le decisioni del corpo elettorale

La doppia partita aperta in questa settimana si può raccontare – come stanno facendo un po’ tutti – situando tra Londra e Parigi l’epicentro degli opposti populismi che destabilizzano l’Europa e la condannano al declino per mancanza di continuità nelle scelte che contano. Oppure all’esatto contrario, come la riprova che la democrazia europea è più vivace, capace di sorprese, in definitiva funzionante, rispetto all’immutabilità di assetti del cosiddetto “mondo libero” che la circonda e con cui si deve confrontare. Negli Stati Uniti il “rivoluzionario” Trump si è rivelato in perfetto continuismo con i suoi predecessori, una specie di Bush 2.0, se non addirittura la “bambola gonfiabile” del capitalismo che da tempo esprime tutti i presidenti americani, come ha scritto Michel Onfray. In Russia Vladimir Putin tiene personalmente e direttamente le redini della politica e dell’economia dal 1999, quasi vent’anni, alternando la carica di premier a quella di presidente senza che si veda un competitore all’orizzonte. In Turchia, la riforma costituzionale appena approvata consentirà a Recep Tayyip Erdogan, che è al potere dal 2004, di restarci fino al 2034 (nella “peggiore” delle ipotesi dovrà fermarsi nel 2029, che già sembra una data da fantascienza).

In questa prospettiva, inquadrata nel contesto delle “democrazie immobili” delle superpotenze e delle medie potenze regionali a loro collegate, l’Europa appare al contrario come un grande e ribollente laboratorio di opinioni e scelte elettorali. Un posto dove, oltre ogni giudizio di valore, la politica cambia ancora le cose, perché è possibile – ad esempio – che la Gran Bretagna saluti e se ne vada per le decisioni del corpo elettorale. E che, in base alle medesime dinamiche, le classi dirigenti uscite vincitrici dalla Brexit debbano piegarsi alle forche caudine di una nuova chiamata alle urne. Che in Grecia un’elezione spazzi via le due filiere politiche che detenevano il potere da oltre mezzo secolo. Che in Spagna un “governo dell’astensione” rimetta in carreggiata il Paese apparentemente condannato a morte dalle dinamiche del debito. Che in Italia il giovane leader – Matteo Renzi – di cui già si prevedeva e decantava un ciclo ventennale debba ricominciare tutto da capo, e con fatica, per tornare in sella. Che in Francia la campagna elettorale metta in discussione esiti e schemi apparentemente scontati.

È instabilità, questa, o in qualche modo una confusa rivincita della politica su chi aveva disegnato lo schemino elementare di un nuovo bipolarismo “popolo contro élites”, “quarto Stato contro classi dirigenti”? L’esito del voto francese, e poi le elezioni britanniche, ci aiuteranno ad aggiornare le analisi, e di sicuro sarà necessario aspettare prima di dare giudizi. Ma nel confuso laboratorio europeo, visto nel suo complesso, si intravede oltre ai molti elementi scandagliati in questi anni dagli osservatori anche un generalizzato rifiuto di adeguarsi alla modalità che ha conquistato il resto del mondo, la resistenza alle “democrazie immobili” patrocinate da Washington e da Mosca come esito obbligato di quella che vent’anni fa Fukuyama chiamava “la fine della storia”. L’Europa, i singoli Paesi europei, ritengono di poter essere ancora artefici del loro destino attraverso la partecipazione e il voto, e sull’orizzonte di questo voto ci sono personaggi magari discutibili ma molto lontani dalle personalità oligarchiche e autocratiche di un Trump, di un Putin, di un Erdogan. Siamo una democrazia più scettica, più problematica, più complicata, più difficile da capire, ma al momento funzioniamo ancora piuttosto bene, meglio dei mondi che ci circondano e che vorrebbero darci lezioni.

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