Diritto alla pigrizia: ecco perché dobbiamo combattere per ottenerlo

Come la logica capitalista del Novecento ha lasciato che il lavoro diventasse una religione. Ma non lo è. E una "macchina", che ci intrappola anche quando crediamo di essere più liberi

“Diamo un addio alla vita, tra poco scatta la trappola. Fino a ieri chi lo avrebbe mai detto che mi sarei piegato a lavorare?”. Così, Aldino, anni trentatré, primi segni di panza e calvizie, milanese nella Milano degli anni Sessanta inoltrati, quella bella, grande, viva, allegra, “con tanta gente che lavora, con tanta gente che produce”, esortava gli amici ad accompagnarlo in un fastoso e smodato addio alla sua disoccupazione. Assisteremmo mai, oggi, a una cerimonia del genere? Nessuno di noi si sognerebbe di salutare con una notte di bagordi il suo ultimo giorno da disoccupato, né avrebbe il magone al pensiero di una scrivania che finalmente l’aspetta e non solo perché siamo più poveri, più precari, più inoccupati e quindi più affamati, non solo perché noi siamo millennial e Aldino e i suoi amici erano quasi baby boomer.

Umberto Simonetta raccontò gli ultimi bagordi di Aldino in Tirar mattina, un romanzo inquieto, chiassoso, squinternato e bellissimo, che nacque in un’Italia e in un Occidente dove resistevano ancora le distinzioni tra vita e lavoro, dovere e piacere, ozio e pigrizia, benessere e felicità. Per Aldino, andare a lavorare significava estradare il piacere e la libertà, almeno nelle ore d’ufficio. Per noi, andare a lavorare è un piacere.

Per l’ottava volta in undici anni, Google risulta “best place to work”, il posto migliore dove lavorare. L’azienda (a Mountain View, Silicon Valley) ha poco dell’ufficio e molto del parco divertimenti, dell’appartamento di lusso, della cooperativa abitativa: è una cittadella ideale, il posto migliore in cui vivere. La relazione tra vita e lavoro, prima conflittuale (soprattutto a partire dal primo dopoguerra) e poi sinergica, s’è ora fatta simbiotica. O, almeno, ci prova.

Per la prima volta nella storia, dello svago dal lavoro si fa carico il lavoro stesso. Un paradosso al quale non sembriamo voler far caso. Simone Weil, filosofa che per studiare la condizione operaia andò a lavorare in fabbrica (nell’Europa degli anni Trenta, dove i diritti dei lavoratori erano ancora tutti da conquistare), era convinta che rovesciare il capitalismo, come voleva Marx, non servisse a niente: importante era, invece, nobilitare il lavoro

La Silicon Valley è il simbolo indiscusso di questa simbiosi e gli imprenditori di tutto il mondo s’accodano al suo esempio, innanzitutto varando politiche di welfare aziendale che sembrano gare di bella eticità: premiare i dipendenti, adattarsi alle loro esigenze, diventare paladini del loro benessere, del loro equilibrio fisico, psicologico, socio-familiare, fornirli di servizi che li affranchino da pratiche burocratiche e che ne aumentino lo svago. Per la prima volta nella storia, dello svago dal lavoro si fa carico il lavoro stesso. Un paradosso al quale non sembriamo voler far caso.

Simone Weil, filosofa che per studiare la condizione operaia andò a lavorare in fabbrica (nell’Europa degli anni Trenta, dove i diritti dei lavoratori erano ancora tutti da conquistare), era convinta che rovesciare il capitalismo, come voleva Marx, non servisse a niente: importante era, invece, nobilitare il lavoro, far sì che i luoghi del suo esercizio fossero a misura d’uomo, delle singolarità, delle creatività particolari. A portare il pensiero di Simone Weil in Italia fu Adriano Olivetti, che fece tradurre e pubblicare alcuni suoi libri da “Edizioni di Comunità”, la casa editrice che aveva fondato. Da Weil, Olivetti apprese che la salvezza dell’uomo sta nella bellezza e capì che le fabbriche dovevano trasformarsi in luoghi di bellezza, di scambio culturale, di crescita umana: dovevano allargarsi fino a toccare il privato, non per asservirlo, ma per liberarne le energie. Uomini liberi sarebbero stati dipendenti migliori, naturalmente, ma l’obiettivo di Olivetti e di Simone Weil era più filantropico che profittevole. I campi da tennis e le biblioteche che circondano gli uffici di Google a Mountain Views sarebbero piaciuti a Simone Weil? Probabilmente sì. Solo che Simone Weil non vide il secondo dopoguerra (morì nel ’43) e non poteva immaginare che il Novecento avrebbe finito con l’uccidere Dio, l’organicismo, le appartenenze, lasciando che il lavoro diventasse una religione e una misura, la sola possibile, dell’uomo. Simone Weil non vide la Milano che accolse Luciano Bianciardi e Giuseppe Marotta, che nel 1962 pubblicarono il primo La vita agra e il secondo Le milanesi, due libri che urlavano i pericoli dell’assuefazione alla produzione, l’ingrigirsi nella funzionalità, l’illusione di essere integrati nel benessere potendoci, invece, solo camminare dentro, l’alienazione dei sogni, la tristezza del piegarsi al lavoro come l’aveva intesa l’Aldino di Umberto Simonetta e cioè l’alienazione dei sogni, delle rivolte, dell’unicità, la resa al dominio e il prendere ad assomigliare alla propria postazione.

“È nostro questo cielo d’acciaio che non finge Eden e non concede smarrimenti, è nostro ed è morale il cielo che non promette scampo dalla terra, proprio perché sulla terra non c’è scampo da noi nella vita”, scrive Elio Pagliarani nel suo poemetto La ragazza Carla. È il 1962, lo stesso incredibile anno de La Vita agra e Le milanesi, Pagliarani tenta di restituire il trauma che l’emancipazione rappresentò per il sottoproletariato che arrivava nelle grandi città e finalmente poteva guadagnarsi da vivere, al prezzo di sottostare a qualunque angheria. “Mangia, ora sì che ne hai diritto”, dicono le colleghe a Carla, che non ha nemmeno diciott’anni, una mamma pantofolaia e un lavoro da dattilografa in un’azienda più o meno prestigiosa dove lei, però, si sente intrusa, incompleta, spenta, spoglia, oggetto. Al teatro Argentina di Roma è in scena, fino al 13 aprile, Carla Chiarelli che interpreta il poemetto di Pagliarani recitandolo in platea, tre le poltrone, tutto d’uno fiato, spogliandolo dal monito e facendo sì che sia solo un dubbio, una piccola insidia. Carla, Aldino, le giovani milanesi non nate a Milano di Marotta dicono ancora molto al nostro presente. Carla, che non era affatto innamorata del lavoro, come siamo o fingiamo di essere oggi, ci costringe a domandarci se la sola differenza tra noi e lei non stia nella quantità di mezzi a disposizione, né nella contabilità dell’emancipazione, ma in un disagio che lei sa ammettere e che noi, invece, fatichiamo persino a riconoscere: il disagio che sta nel vedersi togliere lo scarto tra lavoro e vita. Lo svago. Il cielo che smette di essere blu e diventa d’acciaio e c’inchioda a un destino in serie, forse virtuoso, ma sempre identico. Pagliarani scrisse che il cielo che non lasciava scampo all’immaginazione, all’illusione, al sogno era morale, ma lo scrisse con drammatica ironia: noi abbiamo finito col crederci. È evidente nel rapporto così forzosamente sereno che intratteniamo con il lavoro e che ci impedisce di trovare bizzarro che un imprenditore ci metta a disposizione un campo da ping pong, ci mandi in palestra, ci domandi di fare un test genetico (in America è in discussione in queste settimane il Preserving Employee Wellness Act: se passerà, gli imprenditori potranno multare chi si rifiuta di sottoporsi ai test).

Nel 1883, Paul Laforgue pubblicò il Diritto alla pigrizia per ricordare che l’amore per il lavoro era un’aberrazione capitalistica e avrebbe finito con il rendere l’umanità un automa.

Noi che del lavoro siamo non semplici innamorati, ma coniugi imballati dentro il suo salotto rassicurante dal quale non vogliamo uscire perché è più bello di quello che ci aspetta a casa nostra, dovremmo forse considerare che la distopia più prossima potrebbe non avere a che fare con la dittatura dei social network o dei movimenti para-politici, ma con la possibilità concreta che lavorare comincerà a piacerci più di quanto ci piaccia vivere.

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