C’era una volta il campionato inglese. Non era il più bello del mondo, perché quel titolo, soprattutto negli anni Ottanta, era diventato di proprietà assoluta della Serie A. C’era una volta il campionato inglese, che altri non era che il torneo della palla lunga, degli arbitri permissivi, del pubblico assiepato fino al bordo del campo, dei tifosi riottosi. Per i nostalgici del calcio che fu, oggi tanto in voga, era un bel calcio. Talmente bello che mandava a vincere la Coppa dei Campioni squadre come il Nottingham Forest e l’Aston Villa e dove i derby cittadini come quello di Liverpool erano una cosa seria tanto quanto quello di Milano.
Poi il football britannico ha avuto qualche problemino verso la seconda metà degli anni Ottanta e la bolla è scoppiata, tra tifosi che facevano danni in giro per l’Europa e un’organizzazione interna mal tenuta che vedeva gli stadi prendere fuoco o diventare cimiteri per gente che andava a vedere una semifinale di Fa Cup. C’è bisogno di rifarsi un’immagine, trascinati da un’Inghilterra quarta al Mondiale del 1990, miglior risultato da quello vinto in casa nel 1966. Il campionato inglese allora si sistema il trucco e diventa Premier League. All’inizio non ci facciamo molto caso, ma nel giro di qualche stagione il campionato inglese diventa un format televisivo. Non ci facciamo caso, dicevamo, perché in casa nostra viviamo ancora l’onda lunga del campionato più bello del mondo: i presidenti spendono e spandono, tanto ci sono le nascenti pay-tv a garantire soldi freschi, se non quando banchieri compiacenti o biglietterie ancora capaci di accogliere spettatori allo stadio. Quindi che importa di quel che fanno all’estero, dai.
Poi, anche qui, la bolla è scoppiata. La facciamo breve, perché qui la storia sapete che piega prende. I grandi canali televisivi hanno continuato a staccare assegni sempre più corposi alle squadre, svuotando gli stadi che nel frattempo non si sono rinnovati, rimanendo ancora a quei dinosauri orridi delle Notti Magiche. Questi soldi però non sono bastati a colmare i buchi lasciati nei conti dei club da certi capitani d’industria che a un certo punto sono diventati capitani del Titanic. In Inghilterra i soldi delle tv sono stati investiti per le rose e gli stadi, con il risultato che la Serie A si è impoverita nelle casse e tecnicamente, mentre la Premier è diventato, of course, il campionato più bello del mondo. Bello televisivamente, certo: quando guardi una partita di Premier, pare giochino in un prato perfetto dove scorrono fiumi di latte, miele e sterline. Se sei un grande calciatore, prima o poi finisci lì, contribuendo a uno spettacolo ipertrofico, esagerato: viviamo in un’epoca dove anche il Bournemouth può prendere in prestito Iturbe, uno per il quale l’anno prima Juve e Roma si sono accapigliate sfiorando la guerra atomica, fissando clausole rescissorie oscene tipo di 22 milioni di euro (poi non esercitata, intanto però…).
What a time to be alive, si direbbe. E il discorso fatto per I grandi giocatori vale anche per gli allenatori. Se vuoi vincere davvero, devi andare in Premier League. La dove, cioè, per anni nonostante il trucco rifatto si sono alternati alla vittoria sempre gli stessi: Ferguson e Wenger, Wenger e Ferguson, Manchester United e Arsenal. Poi Sir Alex si è fatto da parte, Wenger no. Lo United non ha ancora trovato un vero erede degno dello scozzese (anche se con Mou ci sta lavorando), mentre il francese ancora sta all’Arsenal zavorrandolo sempre giù dal primo posto. E allora la cosa si è fatta più interessante, sono arrivati gli arabi e i russi a spendere. Lasciando il blocchetto degli assegni in mano agli italiani. Quelli che una volta erano abili banchieri, oggi la moneta la maneggiano per fare bella mostra di sé nel campionato più bello – e visto – al mondo. Già, noi italiani, i furbi italiani, abbiamo capito come funziona il giochino. Diciamo che è un po’ come quando Paolini si metteva dietro l’inviato mal capitato di turno a fare smorfie o inneggiare slogan su questo o quell’altro: prima o poi, al netto di un Frajese che ti prende a calci, acquisisci notorietà. Quella notorietà che ormai il nostro calcio non ti garantisce più come un tempo, vai a cercartela in Inghilterra.
E così, anno dopo anno, noi abbiamo lottizzato la Premier. Negli ultimi sette campionati, i tecnici del nostro Paese campioni a fine stagione sono stati tre. Tutti diversi. Nessun’altra nazione ci è mai riuscita, qui. Carlo Ancelotti il primo, nel 2009/10, con il Chelsea. Poi è stato il turno di Roberto Mancini con il Manchester City nel 2011/12, quindi è toccato a Claudio Ranieri con il Leicester lo scorso anno. E potrebbero diventare quattro allenatori italiani diversi in otto stagioni, se Antonio Conte dovesse centrare l’obiettivo – ad oggi è in testa alla classifica – con il Chelsea. Tutti vincitori del campionato più bello, ma dove vincere non è così difficile. Basterebbe vedere cosa è riuscito a fare Ranieri nel 2016 con il Leicester: bravissimo lui, certo, ma gente come Van Gaal, Wenger o anche Pochettino avrebbero potuto darsi alla macchia per la vergogna, considerati i budget a disposizione. L’ultima impresa tricolore in terra d’Albione significa due cose, allora. La prima, è che siamo talmente bravi, che ci basta poco per vincere. Il nostro campionato, da un punto di vista tattico, resta il più performante, ma non si sa vendere bene. L’Inghilterra lo fa bene invece, talmente bene che riesce a vendere a peso d’oro i diritti di un campionato che non produce più una squadra campione d’Europa da cinque anni (il Chelsea nel 2012) e che, nelle ultime quattro edizioni, ha piazzato solo due semifinaliste (Chelsea e Manchester City) e nessun’altra semifinalista. Un po’ pochino, per un torneo consideriamo nettamente superiore a tutti, Italia inclusa.
Ma agli inglesi in fondo sembra importare poco: si sono creati il loro hortus conclusus dove tutto è bello. E i nostri tecnici, che sono sì i migliori del mondo, appena possono se ne vanno lì. Via da una realtà dove i giornalisti ti crocifiggono per un cambio sbagliato, o dove i tifosi vogliono bere dal tuo cranio. Via da un campionato dove tutto è pettegolezzo o polemica. Molto meglio andare al di là della Manica, dove tutti si aspettavano il gran duello Mourinho-Guardiola. E dove invece ci siamo noi, a dominare il palcoscenico. E chissà, allora, che i veri duellanti non diventino il prossimo anno Conte e Allegri. Il destino di Massimiliano sembra segnato: dopo che hai vinto in Italia, c’è la Premier che ti aspetta. Se vinci qui, sei davvero il migliore. I nostri lo sono già, ma se non ti vedono farlo anche in Thailandia su una panchina inglese, non conta nulla. Detta così sembra più una fiera delle vacche dove portare l’animale a far bella mostra di sé, anziché un torneo di calcio. But this is modern football, baby.