Il nuovo vocabolario della gig economy che non chiama dipendenti i dipendenti

Una battaglia legale ed economica sulle parole e sulle definizioni da usare. Da un lato aziende che cercano di utilizzare categorie giuridiche più convenienti, dall’altro le richieste dei lavoratori

Non sono loro dipendenti, sono liberi professionisti che collaborano con loro. Così come non è vero che l’azienda assume (hire), ma porta a bordo (onboarding). E poi non impongono nessuna uniforme, bensì accettano un branded clothing. Sono alcuni tra i modi, più o meno fantasiosi, con cui le aziende della sharing/gig economy cercano di dribblare le vecchie terminologie del mondo del lavoro, per mostrarsi più innovative ma, soprattutto, per evitare di ricadere in alcune particolari categorie giuridiche – con conseguente necessità di applicare e rispettare le leggi e, infine, pagare di più. Tutto molto semplice.

Come dimostra un documento finito nelle mani del Financial Times, un’azienda come Deliveroo, che si occupa di consegne di cibo a domicilio, è molto attenta al controllo del lessico aziendale. Tutti i suoi dipendenti (che poi non si chiamano dipendenti, ma è lo stesso) devono attenersi ad alcune regole precise, senza mai sgarrare. Parole come “turni” non devono esistere. Al loro posto si dirà “disponibilità”. Così come l’ufficio cui si va per essere assunti, è un “supply centre”. E loro stessi non firmano un “contratto”, ma un “supplier agreement”. E ancora: nessuno di loro lavora “per” Deliveroo. Tutti, però, lavorano “con” Deliveroo. Cominciare una sessione di lavoro? No no. Piuttosto si fa un più delicato “logging in”.

Come si racconta qui, quello che in Italia è successo con Foodora, in Inghilterra capita con Deliveroo. Venti dei loro “consegnatori” hanno fatto causa all’azienda, accusandola di trattarli come dipendenti mentre, dal punto di vista tecnico, li presenta come “self-employed”. Devono rispettare dei turni, devono vestire un’uniforme, vengono pagati a rate e sono soggetti a esami della performance. Perché non sono dipendenti? La questione è controversa e soggetta a dibattito, oltre che al parere di tribunali che dovranno esprimersi. Quello che è certo, però, è che se pure alcuni credono che nomina sunt consequentia rerum, non basta cambiare le parole per modificare la sostanza. Almeno, non quella giuridica.

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