L’iter per il commissariamento di Alitalia è cominciato. Non si sa ancora quale sarà il destino dell’ex compagnia di bandiera, né quante persone andranno in cassa integrazione. Ma una cosa è certa: gli ammortizzatori sociali che si troveranno davanti i dipendenti garantiranno un “paracadute” più comodo rispetto a quelli disponibili per i comuni lavoratori. Come è sempre accaduto. Anche se il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha messo in guardia: stavolta i soldi potrebbero non bastare. Hostess, steward e piloti di Alitalia potrebbero entrare nel mondo dei comuni mortali con gli ammortizzatori ordinari. In caso di liquidazione, i lavoratori rimasti senza posto potrebbero contare su due anni di cassa integrazione, poi sull’indennità di disoccupazione Naspi. Solo per gli ammortizzatori, potrebbero servire 700 milioni di euro.
Ma lo stesso ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda a Radio24 ha minimizzato il rischio di esplosione di una bolla sociale a Roma – dove è concentrato gran parte del personale Alitalia – sottolineando come la protezione dei dipendenti della compagnia garantisca un sistema «privilegiato» rispetto a quelli delle altre aziende.
La ragione va trovata nel Fondo del trasporto aereo, creato nel 2004, che eroga prestazioni integrative pari all’80% degli stipendi lordi, comprensive di superminimi e altre voci. Distribuendo finora assegni mensili che, come ricordava un dossier dell’Inps, in alcuni casi superavano i dieci e i ventimila euro. Fino ai casi limite in cui la prestazione si avvicina ai 30mila euro lordi al mese. Cifre da capogiro per tutti gli altri lavoratori, che invece hanno diritto a un tetto massimo per la cassa integrazione di 1.168 euro. E anche sulla durata la Cig, Alitalia è stata privilegiata: partita nel 2008 per i cinquemila lavoratori in esubero della vecchia Alitalia, sarebbe dovuta durare per sette anni ed è stata poi prolungata fino al 2018. Dieci anni di cassa integrazione “deluxe”.
Ma come si finanzia il fondo? C’è una quota minima pari allo 0,50% a carico del datore di lavoro e dei lavoratori. Ma il grosso viene fornito dall’incremento dell’addizionale comunale sui diritti d’imbarco, ossia un balzello pagato sui biglietti dei passeggeri che atterrano o decollano da un aeroporto italiano. In pratica, il fondo per il trasporto aereo è l’unico che pesa sulla collettività. Prima tre euro in più sul biglietto, lievitati negli anni. Finché quest’anno le compagnie low cost hanno minacciato di abbandonare gli scali aerei periferici davanti all’ennesimo aumento della tassa da 6,50 a 9 euro, e il governo ha fatto marcia indietro.
La legge Fornero nel 2012 aveva previsto che il fondo speciale si adeguasse alle regole dei cosiddetti fondi di solidarietà delle altre categorie, alimentati esclusivamente da contributi di aziende e lavoratori. Dal 1 gennaio il fondo si chiama “fondo di solidarietà per il settore del trasporto aereo e del sistema aeroportuale”. Ma almeno fino a fine 2018 si continuerà a pagare il balzello sui biglietti si paga ancora.
E, a guardare i conti, la sopratassa è indispensabile per il mantenimento del fondo, garantendo ogni anno una copertura di circa 220 milioni di euro. Come ha spiegato l’Inps, dal 2007 al 2014 la quota fornita dalle aziende e dai lavoratori del settore al fondo è scesa fino al 4%, mentre i proventi del balzello sui biglietti hanno coperto il 96 per cento. Per fare un esempio, un pilota con un salario mensile di 10mila euro, contribuisce al fondo con 7,50 euro al mese. Spiccioli, per garantirsi, in casso di cassa integrazione, uno stipendio mensile di 8mila euro.
Regole senza pari che sarebbero state certo garantire con il preaccordo bocciato dai lavoratori, che prevedeva la messa in cassa integrazione per 980 lavoratori. Ma se con il commissariamento questi numeri saliranno, non è detto che il Fondo possa bastare a garantire un assegno mensile dell’80% della retribuzione, ha detto Poletti. E a questo punto si potrebbe ricorrere agli ammortizzatori ordinari. Accadrà davvero? Le alternative sono: mettere mano ai risparmi del fondo, se esistono; o provare ad alzare di nuovo la tassa aeroportuale, ma le altre compagnie non ci stanno a fare gli esattori delle tasse per Alitalia, e abbandonando gli scali aerei periferici produrrebbero a volta altri disoccupati. In ogni caso, serve un prestito-ponte da parte del governo per il mantenimento in vita dell’azienda per i prossimi sei mesi in vista di una possibile vendita. Tra ammortizzatori e liquidità necessaria alla continuità, si arriverebbe a 1 miliardo.