Il Venerdì Santo è molto più spaventoso del blue monday

La morte di Cristo in giro per l'Italia viene ricordata con rituali insoliti (e un po' inquietanti). La Passione non è un film di Mel Gibson, e culturalmente va conosciuta, e riconosciuta

Esiste il blue monday, ed è un pacco fondato su una notizia pseudoscientifica; poi esistono depressioni legate alle stagioni (a gennaio saremmo tutti più tristi per via della poca luce, Dante ci ha scritto una delle poesie d’amore più belle e fonicamente allucinate: “Io son venuto al punto de la rota“). Esiste il colpo di inquietudine che prenderebbe tutti all’arrivo della luna piena: dall’ aumento degli omicidi a ossessioni più capillari, saltellanti, senza sbocco. E poi esiste, almeno in Italia dove vuoi o non vuoi siamo consegnati al Cattolicesimo -per quanto culturale, latente, od oppositivo- la tristezza rituale.

Esempio: la giornata di oggi, che corrisponde al Venerdì Santo, in cui si evoca la passione e morte di Cristo, è un rituale che, da cattolici culturali, latenti o oppositivi, conosciamo benissimo. E che è stata raccontata, chiodo per chiodo e scudisciata per scudisciata, da Mel Gibson in The Passion. Solo che quello è cinema, per di più post-tarantiniano, consegnato alle sue forme, all’enunciato, alla Rappresentazione. Restituisce alla Passione di Gesù il lato di carne e sangue, e all’intenzione di chi ci crede uno sgomento fisico, forse, di sicuro un fastidio. Un risentimento storico-politico (gli ebrei tutti brutti e cattivi: il film ebbe un successo enorme nei cinema palestinesi). Ma il sangue non è necessariamente orrore anche se fa frisson, e l’orrore non è necessariamente sangue: il senso di questa tristezza ritualizzata che si chiama Venerdì Santo non è nel raccapriccio fisico. Semmai a essere precisi in un senso di vuoto, in una sindrome da fine del mondo quella sì davvero depressiva ma silenziosa. Non biologia ma cosmologia: un canto popolare del Venerdì Santo recita proprio così: “Cadde il sole, cadde la luna”. Altro che blue monday.

Il sangue non è necessariamente orrore anche se fa frisson, e l’orrore non è necessariamente sangue: il senso di questa tristezza ritualizzata che si chiama Venerdì Santo non è nel raccapriccio fisico. Semmai a essere precisi in un senso di vuoto, in una sindrome da fine del mondo

Per vedere il lato opposto dell’orrore da Venerdì Santo bisogna andare a Napoli e pagare il biglietto per entrare in un museo tenuto magnificamente, la Cappella dei Sansevero. Lì si trova il Cristo Velato, scolpito dal presepista Giuseppe Sanmartino nel 1753, ed è il contrario esatto sia dello stile del Sanmartino (famoso per le donne carnali e ciccie che metteva nei presepi e per i loro vestiti superbarocchi) sia di quello tarantiniano. È un Cristo deposto e già nel sudario ed è dolcissimo: sorriso addormentato, coperto da un panno finissimo, che non si sa come possa essere uscito dagli attrezzi di uno scultore, e infatti leggenda vuole che il panneggio sia stato realizzato con un procedimento alchemico, inventato da Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, patron dell’opera e della cappella. Tanto che il visitatore non capisce se quel Cristo sorrida per la certezza della Resurrezione, o se sia tutto menefoutisme, un’immagine-sberleffo alla tristezza.

O forse è che, come dice Keith Richards, “la vista è la puttana dei sensi”, e quindi il senso di un lutto rituale, del vuoto, della sindrome da fine del mondo non psicologica ma cosmica non lo dà l’immagine ma il suono o meglio la mancanza di suono. Il silenzio.
Visto che siamo cattolici, almeno culturalmente, latentemente o oppositivamente, è opportuno sapere che in tutta la tradizione popolare Il Venerdì Santo è il giorno muto per eccellenza: nella collezione di caciare assortite e meravigliose della tradizione italiana la morte del Cristo viene celebrata in varie forme. Che, tutte, hanno a che fare con il silenzio.
Da Romagnano Novarese ad Alatri (Frosinone) a Stilo (Reggio Calabria) a Leonforte (Enna) i tre giorni abissali, quelli in cui ogni respiro del mondo sarebbe terremoto, si aprono con l’ultimo rintocco di campane, che restano zitte fino a Pasqua. Nel rito romano le campane tacciono dal giovedì sera, in quello ambrosiano dalle tre di pomeriggio di venerdì, l’ora della crocifissione. Niente suono.

E dato che i campanili servivano tradizionalmente anche a dare indicazioni sull’orario, niente tempo. Tre giorni di perfetta sospensione del negotium, del business, del “tempo del calendario e della busta paga”, e di conseguenza di quella che Jacques Deleuze chiamava “la macchina”: del lavoro, del divertimento, dell’entusiasmo, dell’amore. Nei paesi sono tre giorni di lutto stretto, in certi posti si può ascoltare solo il salmodiare delle anziane in chiesa, il vento che sbatte qualche imposta e il cra cra delle traccole, strumentelli di legno con una ruota dentata che produce un rumore, sì, ma rigorosamente non intonato. Il pendolo del niente su successo, insuccesso e luoghi comuni (cosa ne avrebbe detto Samuel Beckett?) Il grande “boh?” che bordeggia, appunto, con lo spavento cosmico.

Abolizione della rappresentazione, abolizione della parola, sospensione del tempo. Chi crede sta almeno un minuto in silenzio. Per i cattolici oppositivi c’è sempre quel pacco del blue monday.

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