Se la pornografia è davvero l’attenzione maniacale per un particolare fregandosene del contesto e del filo narrativo allora l”affare Consip” con tutte le sue ultime puntate (ieri la più recente, in cui i carnefici sarebbero ora le vittime) è il peggiore filmetto hardcore passato sugli schermi della politica negli ultimi mesi non solo per una trama che langue (come da tradizione del genere) ma anche, e soprattutto, per l’impudicizia degli spettatori allupati che vorrebbero trasfigurare il tutto in una moderna storia sentimentale. E farebbe già ridere così.
I fatti, intanto: nell’inchiesta Consip ad oggi risultano indagati il comandante dell’Arma dei Carabinieri Tullio Del Sette e il generale Emanuele Saltalamacchia perché sospettati di avere rivelato agli amministratori di Consip le indagini in corso a loro carico (e anche il ministro Lotti sarebbe nello stesso mazzo) mentre da ieri compare anche il nome del capitano Gianpaolo Scafarto, responsabile di una sezione del Nucleo Operativo Ecologico, con l’accusa di avere falsificato alcuni atti di indagine e essersi sognato inesistenti uomini dei servizi segreti con la deliberata volontà di coinvolgere nell’indagine il padre di Matteo Renzi in un presunto rapporto con il costruttore Romeo falsificando l’attribuzione di alcune frasi intercettate.
I rapporti tra Tiziano Renzi e il costruttore Alfredo Romeo, infatti, starebbero (secondo la truppa vogliosa di can can di questi ultimi mesi) tutti in una frase pronunciata dal parlamentare Italo Bocchino (e non Romeo) che avrebbe genericamente parlato di “Renzi” senza nessun riferimento esplicito al padre piuttosto che al figlio: l’arma del delitto insomma (anzi, visto il grado di gossip si potrebbe dire “il candelabro del maggiordomo”) è una frase con falsa attribuzione e per di più senza rilevanza penale.
Fermi. Non finisce qui: mentre Del Sette e il generale Saltalamacchia si sono sottoposti subito a interrogatorio dopo essere stati iscritti nel registro degli indagati ieri il capitano del Noe Scafarto si sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere per, a detta del suo avvocato, “strategia difensiva”. A questo aggiungiamoci pure che proprio la Procura di Roma nei mesi scorsi aveva deciso di revocare le indagini al Noe per la continua fuga di notizie verso organi di stampa senza tenere conto di una presunta fronda interna al nucleo operativo contraria alla rimozione del capitano Ultimo da parte del governo.
I rapporti tra Tiziano Renzi e il costruttore Alfredo Romeo, infatti, starebbero tutti in una frase pronunciata dal parlamentare Italo Bocchino (e non Romeo) che avrebbe genericamente parlato di “Renzi” senza nessun riferimento esplicito al padre piuttosto che al figlio: l’arma del delitto insomma è una frase con falsa attribuzione e per di più senza alcuna rilevanza penale
Dico davvero: voi ci costruireste un caso politico (e giornalistico) su una storia così sbrindellata? I protagonisti di questa commedia (che comunque vada a finire lascerà macerie di credibilità in giro) sono, sia in un caso che nell’altro, uomini di legge irrefrenabilmente attirati dal potere (o per fascinazione o per sdegno) che hanno ceduto alle lusinghe dell’occasione di essere parte attiva di un processo di rafforzamento (o di sgretolamento) di un governo. Una pessima storia, comunque vada.
Quello che interessa però è il feticismo con cui la politica (e i suoi rami giornalistici) sguazza in questa storia, come se gli ultimi vent’anni non ci siano mai stati: un accorato, quasi patetico attaccamento alla virgola giudiziaria per trovare lì la spinta che manca sui temi che la politica dovrebbe abitare.
C’è bisogno di Consip per denunciare la gestione padronale del potere da parte di Renzi nei suoi 1000 giorni di governo? No, davvero. L’eccesso di vicinanza come sinonimo di garanzia da parte dell’ex premier sta nell’elenco delle nomine a uomini di governo e uomini di stato che ha stilato durante tutta la sua legislatura (e, attenzione, anche Renzi velatamente ha ammesso qualche “personalizzazione” di troppo) senza dovere andare a tirare per i capelli babbo Tiziano dall’entroterra toscano.
C’è bisogno di Consip per denunciare l’inefficienza politica e culturale di un Paese che appalta preferibilmente per amicizia che per rispetto delle regole? No, davvero. Basterebbe ripetere cento volte ad alta voce le cifre della corruzione in Italia per rendersi conto (e dar conto) di un’Italia bloccata dalle incrostazioni amicali e dalle convergenze di interessi che gestiscono pezzi della nostra economia come fosse un pranzo di gala. Se vogliamo capire gli elementi antropologici e culturali che premiano l’appartenenza piuttosto che il merito ci basta rimettere un microfono sotto il naso del ministro Poletti per averne conferma. Vedrete, funzionerà sicuro.
C’è bisogno di Consip per ribadire che “la fiducia nella magistratura” (che anche nel caso Consip è la filastrocca cantata a bocca larga da tutti i protagonisti) dovrebbe stare nei fatti piuttosto che negli intenti? No, davvero. Basterebbe citofonare al decaduto (dopo essere stato salvato) senatore Minzolini per rendersi conto di un cortocircuito che ha bisogno di essere sciolto per l’ecologia intellettuale e politica del Paese.
Altrimenti poi finisce come sta andando a finire: i presunti colpevoli che chiedevano di tenere i toni bassi oggi sparano a zero con la ferocia di chi crede di avere diritto alla vendetta urlata; una curva di tifosi si zittisce mentre l’altra eccede nel giubilo che diventa scherno anche un po’ volgarotto; lo spazio lasciato libero dagli “intellettuali” fideisti ora sbugiardati viene occupato da magistrati pronti per essere cannibalizzato perché sovraesposti e, da fuori, tutti appaiono inaffidabili, venduti, servili.
E ricomincia la pornografia. Appunto.