Il bastone. Voglio essere serio. No, non voglio fare come quei giornalisti che relegano Antonio Dikele Distefano nel ghetto del ‘fenomeno dei social’. Antonio Dikele Distefano, “un ragazzo di origine angolana di ventiquattro anni, nato a Busto Arsizio” – così la nota in quarta – è un fenomeno editoriale. Con Mondadori, Antonio, alto, bello, elegante, con lo sguardo intenso in una foresta filmica – così lo vedete su Facebook nella trafila di trailer che promuovono il suo ultimo libro, Chi sta male non lo dice – è al terzo romanzo. Antonio è uno che scrive. Ed è giusto trattarlo come uno che scrive. Giusto? Bene, partiamo. Prima pagina della Seconda parte dell’ultimo romanzo. Dovrebbe essere un momento intenso. Ifem, l’io narrante femmina, racconta la morte della madre, “avevo sedici anni”. La madre muore il 29 dicembre del 2004, “in seguito a un frontale con un muro in cemento armato di alcuni palazzi in costruzione”. L’effetto patetico inacidisce le nostre viscere, siamo pure propensi al pianto. Finché non scatta la frase, “i medici non poterono fare altro che constatare la sua morte”. L’incipit del pianto si muta in patente incazzatura. Una frase del genere – i medici non poterono fare altro che constatare la sua morte – scopiazzata forse imitando il gergo dei tiggì, infrange la ‘sospensione dell’incredulità’ su cui si regge la letteratura. Usare una frase simile – ma dove sono le falangi degli editor mondadoriani? – dimostra che all’autore mancano le minime accortezze letterarie, ha letto pochissimo, malissimo. D’altra parte, la sostanza di questo libro astutamente semplice, una giungla di frasi fatte (“quando tu stavi male, ti rifugiavi per ore al mare lasciandoti cullare dalla braccia avvolgenti delle onde”), scritte, forse, per essere ascoltate sull’iPhone, di ideologia dell’integrazione che è un improvvido decalogo del politicamente corretto (“tutte queste persone, i miei vicini di casa e anche i miei amici non hanno ancora capito che questa è solo la mia pelle e non determina proprio un bel niente”), di eros sottozero (“mi leccavi l’ano, il seno, venivi dopo pochi minuti ma a me andava bene lo stesso”, a me, piuttosto, non va bene che uno usi la parola ano: se è culo, chiamalo culo, almeno) e di sentimenti a buon mercato (cosa volete che dica la mamma alla figlia prima di sfracellarsi? “Confida sempre e solo in te stessa”), era già tutto previsto. Fin dalla seconda pagina. “Ti alzasti, arrivasti davanti alla macchina e ti sedesti al posto del tuo amico. Sniffasti le ultime due piste rimaste e poi tornasti di fianco a me”. Al di là della scena narrata – del tutto inautentica – quella sfilza di verbi (alzasti, arrivasti, sedesti, sniffasti, tornasti) farebbero inorridire pure Fedez, pare una canzone di Emma remixata da Marco Carta, che schifo. Il libro, dal tono scontato e pure immorale – giustifica il fatto che ciascuno è qualcuno senza avere fatto qualcosa, qualsiasi cosa – tuttavia aiuterà Antonio Dikele Distefano a essere quello che sogna, “il nuovo Fabio Volo”. Fabio Volo. Mica Dante, Leopardi, Gadda, Calvino, Pasolini. No, Fabio Volo. L’Occidente è letterariamente, letteralmente spacciato, stiamo colonizzando le menti con l’indecenza estetica. A questo punto, sogno una invasione di cantori del Sahara, di aedi etiopi, di Omero siriani. Una invasione di gente che abbia ancora qualcosa da cantare, ancora stelle a cui dare nomi e destinare storie.
Antonio Dikele Distefano, Chi sta male non lo dice, Mondadori, pp.162, euro 12,00
La carota. Il più grande scrittore ‘migrante’ italiano si chiama Basili Khouzam, nato in Libia da genitori siriani, di Aleppo, immigrato in Italia nei tardi anni Settanta, scampando al regime di Gheddafi. Per la storia della letteratura, Basili è noto come Alessandro Spina, che quest’anno compirebbe 90 anni, non fosse che è morto nel 2013. Amico di Cristina Campo – il loro Carteggio è una lettura affascinante – Spina, anche se nessuno lo dice – in letteratura è il regno della mediocrità e della delazione – è stato uno dei grandi narratori del secondo Novecento. Leggere l’opera tutta, I confini dell’ombra, ci aiuta, forse, a capire gli effetti del colonialismo e dunque dei flussi e riflussi migratori. Per lo più, però, l’opera di Spina è un insegnamento estetico assoluto. Per semplificare la vita a chi ha troppo da scrivere e poco tempo per leggere basta studiare a memoria una delle Storie di ufficiali – la perfettissima è L’astrolabio – per capire il mestiere. Fiero della propria inappartenenza alle mode – avvicinate l’austero Spina tramite i suoi saggi raccolti in Elogio dell’inattuale – Spina sa che “la letteratura non segue il sistema maggioritario, ognuno va per conto suo”, che bisogna studiare – i suoi idoli? Thomas Mann, Dostoevskij, Robert Musil, Flaubert – e che infine il genio trionferà: “dei libri di Vittorini, incensati quando uscirono oltre ogni dire, si parla sempre meno: resta quasi solo il ricordo della cantonata che prese nel caso Lampedusa, cui rimase sordo rifiutandosi di pubblicarlo”. Speriamo che abbia ragione lui.
Alessandro Spina, Elogio dell’inattuale, Morcelliana