Nelle università inglesi avrai voti più bassi se usi “ministro” anziché “ministra”

Succede a Hull: alcuni studenti saranno penalizzati se nei loro temi non si atterranno a un linguaggio "gender-sensitive". Una battaglia politically correct che avanza tra le critiche da decenni e che non si ferma mai. Senza cambiare di una virgola, però, lo status quo

Ci sono notizie che non sono fake news, ma che sarebbe meglio lo fossero. All’Università di Hull, in Inghilterra, è stato deciso che gli studenti del corso di Scienze Sociali (corso di attivismo religioso) dovranno, nei loro testi e nelle loro ricerche, servirsi di un linguaggio “gender-sensitive”, ossia privo di riferimenti al genere. Se non lo faranno, prenderanno un voto più basso.

Nonostante la notizia sia uscita il 2 aprile, non è un pesce d’aprile in ritardo. È vera. Come è vero lo smarrimento che coglie chi la incontra. Certo, è da decenni che negli atenei anglosassoni (ma anche in altri Paesi) viene combattuta, in ogni campo, una battaglia politically correct dai toni epocali e dalle premesse ridicole. Una deformazione dell’etica, ridotta a etichetta, che Robert Hughes aveva definito Cultura del Piagnisteo. Chiudendo la questione una volta per tutte.

Il problema è che, con il passare degli anni, Hughes è morto ma il politically correct no. E adesso gli studenti di Hull non sarano più costretti a sorbirsi soltanto pipponi su come il linguaggio sia una potente fonte di simboli (vero) in grado di influire sulla percezione della realtà (vero), e che per questo l’uso del genere nella lingua definisca, già in partenza, discriminazioni e differeze tra uomini e donne (non vero, o almeno non dimostrato). Saranno costretti anche ad assorbire questi insegnamenti e applicarli, altrimenti il loro esame non andrà bene. Più che istruzione, è ricatto.

Finora ci si era limitati a linee-guida e raccomandazioni. Come ricorda il Guardian, già a Cardiff, in Galles, agli studenti veniva predicato di mantenere, negli scritti il linguaggio più neutro possibile. Ad esempio, meglio usare “efficient” anziché “workmanlike”, e “supervisor” per “foreman”. A Bath hanno premuto molto perché anziché “mankind”, che contiene la brutta parola “man”, si usasse “people”, o “humanity” (una svista, allora, visto che anche “humanity” contiene “man”, anche se non è una questione etimologica). Per i soloni della University of North Carolina è molto male usare anche “mailman”. Meglio “postal carrier”. Bandito anche “policeman”, e peggio che mai “man-made”, quasi a suggerire, in via subliminale, che l’uomo fa le cose e la donna no. E se le fa, è perché si sta trasformando, in via temporanea, in un uomo.

Ma a parte il grottesco che questa storia porta sempre con sé, una domanda si impone: è almeno efficace? Queste misure davvero contribuiscono a ridurre la discriminazione di genere della società? Davvero cambiano le profonde strutture dell’inclusione? Perché, a un primo sguardo, è difficile capire che differenza faccia il fatto che il latte, in italiano, è maschile mentre in tedesco, al contrario, è femminile. E che in italiano il Sole, come è noto, è maschile, e in tedesco, di nuovo, è femminile. Anche la morte, in tedesco, è di genere maschile (e anche in svedese: per questo Ingmar Bergman la fece interpretare da un uomo). E ancora: il turco non ha generi, ma in Turchia esistono discriminazioni di genere. E, se si vuole, lo stesso vale per il giapponese. Perfino l’inglese, in fondo, i generi li distingue molto poco. E allora che si fa?

Allora l’impressione è che sia una grande battaglia di pensiero, combattuta per finalità anche condivisibili, ma con armi del tutto inadatte. Una guerra mondiale fatta con i soldatini. Quasi come se – e qui c’è il sospetto – non si voglia davvero vincere, perché le conseguenze in tal caso sarebbero troppo scomode, ma solo attribuirsi il merito di stare dalla parte giusta. Insomma, coscienza a posto e vantaggi di classe/genere. Senza nessun rischio per nessuno– a parte per gli studenti che, per sbaglio, useranno chairman riferito a un presidente donna.

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