Secederai con dolore: breve guida ai popoli che vogliono staccarsi dalla patria

Staccarsi da uno Stato e crearne uno nuovo non è per nulla semplice. La Catalogna cerca di farlo da decenni, senza successo. Il sogno della Padania leghista è tramontato nel nulla. Gli scozzesi oggi ci riprovano, ma non è detto che funzioni: ecco come bisogna fare

Sono ormai lontani i tempi in cui si invocava la Padania, quelli in cui la Lega di lotta e di governo guidata dal suo fondatore, Umberto Bossi, fomentava le popolazioni del Nord vendendo un sogno di libertà (fiscale, soprattutto) da Roma. Ora è tutto cambiato: Matteo Salvini, il nuovo segretario, ha fatto un’inversione a U, parla di Italia e di italiani, compresi quelli del Sud, e li guida contro il mulino a vento dell’Unione Europea, dell’Euro e della Germania.

Nel frattempo, però, le pulsioni secessioniste nel resto del mondo non sono finite. Anzi. Alle classiche volontà di fuga dei Catalani, ogni volta frustrate da referendum ritenuti non validi, e a quelle del Québec, in Canada, si sono aggiunte quelle degli Scozzesi e, tra le altre, dei Californiani (sì, ma solo dopo l’elezione di Trump).

Il problema è che la secessione, specie di questi tempi, è un affare nient’affatto semplice. Come spiega il sociologo politico Michael Hechter, ogni movimento di autodeterminazione non può provenire da un’unico motivo (es: l’elezione di Trump), ma discende da una serie di ragioni storiche, culturali, economiche che si intrecciano nello stesso momento e assumono forza politica. Per questo, insomma, ne trae un piccolo manuale: le condizioni necessarie per una secessione fatta bene.

Servono, prima di tutto, interessi economici molto diversi. In molti Paesi capita che alcune regioni, quelle più ricche, sentano che i loro contributi (cioè le tasse) siano eccessive rispetto ai benefici che ritornano, creando un sentimento di frustrazione nei confronti dello Stato centrale e, in particolare, delle regioni che dipendono dalla redistribuzione della loro ricchezza. È il caso della Catalogna, per esempio, ma all’epoca anche di chi voleva la Padania.

A questo si aggiunge un problema di identità culturale. È una componente emotiva, simbolica, psicologica. Ma che non va sottovalutata. Spesso si basa su presupposti storici più o meno fittizi (come in Catalogna), in cui storie e miti fondativi sono costruiti apposta per adeguarsi alla volontà economica. In altri casi si tratta di divisioni pre-esistenti, a volte linguistiche (come il Québec) a volte religiose (come il caso del Pakistan dall’India). Il fattore culturale per sottolineare una divisione noi-loro è essenziale.

Il terzo punto è la necessità, inattesa e improvvisa, di un l’elemento scatenante. Nel 2012 la rielezione di Barack Obama ha provocato, in alcuni Stati degli Usa, una serie di proteste culminate nella petizione per la secessione di Alabama, Texas, Tennessee, Louisiana, Florida, Georgia. Nel 2016, dopo la vittoria di Donald Trump è avvenuta la stessa cosa per la democratica California, che ha minacciato la Calexit. In entrambi i casi, però, le iniziative si sono rivelati pura velleità.

Infine, la difficoltà di condurre negoziazioni efficaci. Di fronte al desiderio di secessione, o si imbracciano le armi (ma sarebbe meglio di no), oppure si cerca una soluzione sul piano diplomatico. Quasi sempre la nazione “madre” cerca di evitare eventuali sottrazioni di territorio, sovranità e popolazione. Per questo è disposta a mettere sul tavolo promesse di semi-autonomia e indipendenza, oppure strategie per alleggerire il carico fiscale ed economico. Ci sono molte vie per addolcire l’umore di popolazioni arrabbiate. E prima di dividersi, le si percorre tutte.

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