Si pubblica Bruciare tutto di Walter Siti (Rizzoli) ed è subito caso polemico. La vicenda di un prete, Don Leo, tormentato e sofferente che subisce le avances di un ragazzino, Andrea, ma non vuole cedere alla tentazione, fino al punto di pregiudicare tutto del ragazzino, e di sé, è il tassello romanzesco mancante al puzzle giornalistico, editoriale, mediatico, rappresentativo.
Chiesa più pedofilia uguale prima pagina. Il risultato è che il romanzo è stato variamente preso per il libro scandalistico del cosiddetto -luogo comune alert- “scandaloso autore”. La filosofa Michela Marzano su Repubblica lo ha stroncato con un argomento classico: il giudizio sul contenuto del libro “Che cosa suggerisce allora Siti in Bruciare tutto? Che è meglio dannarsi l’anima facendo sesso con un bambino che istigare a un suicidio?” scrive Marzano, presupponendo che la morale -presunta- del romanzo sia tutto, in un romanzo.
Il “cosa suggerisce” è un modo di giudicare le opere d’arte un po’ logoro, usato variamente a fini di edificazione per secoli. Solo che in letteratura (e nel cinema, e nella pittura eccetera) questo metodo quasi mai garantisce nulla. Grandi opere d’arte hanno spesso morali pessime e disgustose. Viene la curiosità su cosa direbbe Marzano a guardare le vignette “pedofile” di Andrea Pazienza. O a leggere Meridiano di Sangue di Cormac Mc Carthy.
Ma meglio far parlare Siti stesso, che mentre accoglie gentilmente in casa sua il cronista sembra un po’ rattristato dalle polemiche. Sospendiamo il giudizio su forma e contenuto. Cominciamo parlando, visto il tema del libro, di Sacre Scritture.
Nel romanzo ci sono molti innesti biblici, specie durante le meditazioni di don Leo. Il suo rapporto con la Bibbia è solo letterario o anche religioso?
La Bibbia l’ho sempre letta, prima un po’ per dovere, perché facendo il critico letterario se uno non la conosce bene non riesce a leggere la Divina Commedia. Dopodiché mi sono affezionato ad alcuni libri, che ho continuato a leggere a modo mio: il Cantico dei Cantici, L’Ecclesiaste, il libro di Giobbe. Tutto il Nuovo testamento. Comunque si è trattato una lettura di tipo letterario e storico-letterario. Mai letti come preghiera.
Si definirebbe agnostico o ateo?
“Ateo” è una parola che non ha senso. Il bisogno di credere è forte in tutti i tempi e tutti i paesi. Non riuscirei a dire che non credo in niente di superiore. Trovo affascinante la figura di Cristo: l’idea di un Dio che muore e soffre è affascinante. Forse, come temperamento, ho sempre pensato che vivere e basta è troppo poco.
Non sarà che le forme di rappresentazione, anche nel romanzo, tendono ad andare verso situazioni estreme, per una specie di nostalgia di trascendenza? Quasi che, attraverso la ricerca del limite, si cercasse, in negativo, la presenza di qualcosa di incommensurabilmente potente. Una sorta di sublime acchiapparella con il divino?
Quello che dice lei la sento molto nella nascita della lirica moderna, dal Settecento in poi. Il bisogno di qualcosa di incommensurabile fa esplodere le strutture della lirica. La poesia prende il posto della trascendenza divina. Invece la “polverizzazione” del romanzo, che diventa saggio, filosofia, altro, mi sembra legato al venir meno delle filosofie della storia.
In “Bruciare tutto” i discorsi politici di Don Leo si arenano nel soliloquio. Non c’è più spazio per la politica in una dimensione pubblica?
Don Leo non ha soluzioni politiche, né un’idea politica precisa. Piuttosto una vaga tensione per quella che chiama “un nuovo cielo e una nuova terra”. Io ho l’impressione che questa attitudine di Don Leo sia legata all’impossibilità di pensare la Rivoluzione. C’è un passo sull’estremismo islamico: “c’è un momento in cui i terroristi hanno potuto chiamare la loro follia rivoluzione perché noi, a nostra volta, abbiamo trasformato la parola rivoluzione in una follia”.
Bruciare tutto è un romanzo milanese. Con l’architettura della Milano che cresce. La milanesità. Avrebbe potuto ambientarlo a Roma?
Non direi. Quello che mi colpiva nel caso di questa storia era una specie di contrasto non comunicante tra una serie di personali inseguimenti verso una temperatura di amore che non distrugga Ma nessun personaggio riesce poi a trovarla. Tranne i tiepidi: il prete anziano con la perpetua, i due gay che vogliono sposarsi. I banali. Gli altri muoiono. Questo clima di infelicità generale mi faceva contrasto con un benessere molto diffuso. Quindi Milano. Roma è talmente implicata nella mescolanza tra alto e basso che sarebbe risultato difficile far risaltare i dolori singoli.
Nulla a che fare con il cattolicesimo milanese che diversamente da quello sensuale dei Sud è inibito, giansenista, calvinista?
Sì. C’è un po’ di rigorismo a Milano, che emerge per esempio nelle autocensure che si fa Don Leo. Non guarda nemmeno gli angeli nei dipinti per autorepressione. Preferisce le Madonna delle sette spade a quella di Raffaello. Sarebbe portato alla vita, a godere la vita, ma si reprime.
Secondo lei il Cristianesimo è un umanesimo?
Ci sono filoni di pensiero opposti. Un teologo come Bultman oppone apertamente il cristianesimo e l’umanesimo. L’umanesimo pone l’uomo al centro di tutto, secondo il cristianesimo bisogna trascendere l’umano. Anche l’Imitatio Christi di Tommaso da Kempis raccomanda di umiliare l’umano. Don Leo è in dubbio tra queste due concezioni. Visto dal suo punto di vista il Cristianesimo è qualcosa di punitivo.
Se un bambino muore da un punto di vista cristiano è poi un male secondo lei? In una prospettiva di vita eterna morire non è il peggiore dei mali..
Su questo non posso seguirla. Leopardi, nello Zibaldone, parlando di una madre dice: “spera che i suoi bambini muoiano molto piccoli perché andranno in Paradiso”. Ma nel mio libro non lascio nemmeno pensare a Don Leo una cosa del genere. È che scrivendo mi sono talmente affezionato al personaggio del piccolo Andrea che per me la sua morte è stata veramente un dolore.
Ma infine è un personaggio di un libro, non un bambino vero. Non è che le polemiche sui libro nascono da una sostanziale confusione tra realtà e finzione?
Nascono dal fatto che è stato letto come un romanzo a tesi. La tesi sarebbe che è meglio perdere la propria vita spirituale e cedere alla tentazione pedofila, piuttosto che fare sì che un bambino muoia.
Ma?
È una tesi che non ho mai pensato. Perché Don Leo non è affatto attratto da Andrea. Non ha nessun desiderio pedofilo. Allontana il bambino che gli fa le avances senza riuscire a dirgli “un abbraccio è meglio” perché troppo bloccato nelle sue inibizioni. Poi il modello del personaggio inizialmente era Riccetto di Ragazzi di vita di Pasolini. Lì Riccetto da ragazzino si butta nel Tevere per salvare una rondine. E alla fine Riccetto decide di non salvare un ragazzino che annaspa sempre nel Tevere, perché ormai si è indurito. Lo stesso fa Don Leo, che all’inizio mette a repentaglio la propria vita fisica per salvare uno che non conosce. E alla fine non ha il coraggio di perdere la propria vita spirituale per salvare Andrea. I suoi discorsi sullo spogliarsi nudo per salvare Andrea sono chiaramente frutto di un momento disperato del personaggio, sconvolto per la morte del bambino. Del romanzo a tesi non c’è niente. Per questo non ho riconosciuto la polemica quando è nata.
Be’ ma alla fine il libro è stato accusato di voler giustificare qualcosa del genere. Ora sappiamo che molta letteretura, cinema, arte, corre il rischio di mitizzare il male. Anzi in un certo senso lo mitizza.
Il rischio c’è.
In Sciascia il mafioso che parla di chi cammina sulla foresta di corna, certi criminali di Saviano, personaggi attrattivi come il Don Vito Corleone de Il Padrino di Francis Ford Coppola, il Satana di Milton, la saggezza infernale di Wiliam Blake.
Vuole dire che rappresentando il male gli si fa pubblicità?
Che rappresentandolo si apre una strada di sensatezza a chi lo vuole agire. Penso che molti mafiosi veri siano fan de Il Padrino. Che molte donne di camorra comprino l’utilitaria gialla perché lo ha raccontato Saviano. Che molti trafficanti di droga guardino le fiction sui narcos, o Scarface. Insomma che questi oggetti culturali creino una maschera in senso junghiano, che protegge e rappresenta, anche il delinquente. Che facciamo? Censuriamo?
Io penso che sia il caso di correrlo il rischio di mitizzazione, di rendere attraente del male. È un rischio che è sempre esistito. Quando Racine decide di fare la propria tragedia su una donna che ama il proprio figliastro, quindi una donna incestuosa, tutti quelli di Port Royal gli dicono che non è il caso. E lui li sfida: “Quando leggerete non potrete non parteggiare anche per Fedra”. E in effetti se leggiamo prendiamo le parti anche sue, del personaggio negativo. Il rischio indubbiamente c’è.
E allora?
Mi sembra un rischio minore di quello che la società correrebbe se decidesse che del male non si deve parlare. E quindi lasciarlo non espresso. Perché tutto quello che rimane inespresso poi lavora sottotraccia e può rispuntare in forme che non conosciamo. Di sicuro pericolose.
I posti più perbenisti sono quelli con più serial killer…
Sono tutti i rischi della rimozione. Che può saltar fuori in molti modi, dal tic all’impazzimento. Oggi mentre facevo lezione alla Iulm e parlavamo di pedofilia, una ragazza si è alzata tremando e piangendo. Poi mi ha detto: “queste cose non esistono e non ne voglio parlare”. Ma se questo diventa un atteggiamento generale, culturale, penso sia peggio.
Quindi oltre a un pericolo la rappresentazione del male può essere una purificazione. Il grande modello del racconto del male è la tragedia, che, secondo Aristotile, deve suscitare “pietà e terrore” per purificare lo spettatore. Bisogna per forza passare dal dolore perché ci sia un effetto etico?
Questo effetto di shock si ottiene soprattutto quando un testo spiazza rispetto ai luoghi comuni. Quando ti arriva il colpo diretto nello stomaco sei costretto a elaborarlo. E può essere o il male puro (l’irruzione della violenza, del sangue ecc). Può essere qualcosa di più leggero, ad esempio il sesso che si spinge là fin dove la rappresentazione non era ancora arrivata. Da Petrarca a Joyce per esempio il corpo della donna si scopre sempre di più. O forse il bene puro.
Esempio?
L’idiota di Dostoevskj. L’uomo assolutamente buono fa guai terribili. Perché dice sempre la verità. E mette le persone davanti a uno specchio che non è quello che vorrebbero trovarsi di fronte. Devono essere cose che tolgono dal binario consueto e ti mettono su un binario diverso.
Dunque anche lo scandalo, che poi permette di guadagnare un pezzettino di realtà in più. Non mi dica che non si aspettava le polemiche per il suo romanzo. Non le ha provocate apposta?
Non direi. Sono giorni che sto male. Non avrebbe senso provocarsi il male da soli. No.
Allora?
Mi aspettavo che alcune scene, crude, provocassero qualche discussione. Per esempio la scena del vero e proprio congresso carnale tra il prete e il ragazzino. Tra l’altro è una scena rappresentata in modo crudo. Invece stranamente ci si è molto concentrati sul suicidio di Andrea alla fine. L’editore era più spaventato di me. Quando gli proposto questo libro tre o quattro volte mi hanno detto “sei sicuro”? Poi comunque, dato che ho 70 anni e un minimo di carta bianca, mi hanno dato fiducia. Il problema è che sono arrivate prima le polemiche, e poi le recensioni più complete. Era il contrario di quello che mi aspettavo. E comunque va bene. Spesso nella vita è così.