Il bastone
Italo Calvino, lo scrittore più citato nelle antologie scolastiche del Belpaese, scriveva canzoni. Una s’intitola Canzone triste, in effetti è tristissima, parla di lei che “s’alzava all’alba/ prendeva il tram, correva al suo lavoro” e di “gente dagli sguardi tetri” che nella nebbia cerca “invano il sol”. Italo Calvino scriveva canzoni ma non gl’interessava cantare né fare il pavone al Festival di Sanremo. Anche Patti Smith scrive canzoni. Per questo l’Università di Parma – che forse, grazie all’escamotage, recluterà qualche matricola in più – gli affibbierà a maggio la laurea ad honorem in Lettere Classiche e Moderne, d’altronde, se hanno dato il Premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan… Probabilmente la cantante di “perché la notte appartiene agli amanti/ perché la notte appartiene al desiderio” – traduzione abborracciata di Because the Night – ha fatto per la letteratura italiana più dello scrittore delle Città invisibili, che per altro frequentò svogliatamente Agraria, lasciando dopo quattro esami. Piccoli segni di una schizofrenia estetica ormai consolidata dove il cantante pop, per variare il menù delle vanità, si fa scrittore, si pensa poeta o romanziere, tanto è uguale. L’ultima, dal claustrofobico ring dell’editoria italica, è micidiale. Federico Zampaglione come Tiromancino partorisce una canzone, Dove tutto è a metà – per altro scialba, bruttina – mentre con Giacomo Gensini – lo sceneggiatore di riferimento dei suoi dimenticabili film – firma il romanzo omonimo per Mondadori. Il romanzo – chiamiamolo così – ruota intorno al Morrison Cafè, che si chiama così a causa di “una gigantesca insegna rosa al neon, con tanto di immagine stilizzata del grande Jim”, ammazza che fantasia, ed è gestito da Rocco “detto Rock” – ovviamente – un tipo che “era stato il bassista di un gruppo cover dei Doors”. Il Morrison Cafè sta “a metà della via che gira attorno al Monte Testaccio” e “per la scena musicale alternativa era un punto di riferimento”. Una sera suonano i Bangers, il cantante si chiama Lodo ed è il gemello sputato di Zampaglione: voce “con una nota disperata di fondo”, “sguardo basso, rigido”, “magnetismo al contrario, più che attrarre respingeva”, tranne quando alzava gli occhi, e “fu un lampo azzurro, improvviso, accecante”. Ora basta. Il libro va bene per i fan e va benissimo per Mondadori, se quelli che vanno ai concerti di Tiromancino comprano il libro di Zampaglione si va all’incasso, si fa vendemmia di euro. Quanto a noi poveri lettori, non so se sono più noiose le canzoni di Zampaglione, il suo romanzo o il terribile Tulpa. Per carità, la moda dei cantanti-scrittori è più che ventennale. Il primo fu Jovanotti, che non cantava bene e poteva soltanto scrivere peggio: nel 1988, a 22 anni, pubblica per Vallardi Yo, brothers and sisters: è un romanzo? Boh. In effetti dieci anni dopo sbarca in Feltrinelli con Il grande boh!, un oggetto non bene identificato ma che fece effetto su Fernanda Pivano, gli ricordava Jack Kerouac, aiuto. Prima di Zampaglione, tuttavia, fu Luciano Ligabue ad essere afflitto da manie wagneriane di onnipotenza: solo che tra libri (al primo, Fuori e dentro il borgo, 1997, ne sono seguiti altri tre) e film (tre, il primo, Radiofreccia, è del 1998) si ricordano a mala pena le canzoni. Troppo facile sparare sulla lettiga dei cantanti pop – ma l’avete letto Ferro e cartone di Francesco Renga? Ecco, leggete altro – il fatto è che sono immancabilmente modesti pure i romanzi di cantautori coi controcosi. Prendete Roberto Vecchioni. Non si accontenta di cantare Alda Merini, Rimbaud, Pessoa e i Barbapapà, no, ha bisogno di adornarsi della griffe di ‘scrittore’. Beh, l’ultimo scritto, La vita che si ama (Einaudi, 2016), è un album di agghiaccianti banalità. Questa, per dire, non la mettono nemmeno dei Baci Perugini, c’è un limite all’ovvio: “la felicità è lì, a portata di mano, lì che non dobbiamo farci chissà quali viaggi con la mente o frustarci l’anima per essere più in là”. E non sono migliori i para-romanzi di Enrico Ruggeri (stampa sempre Mondadori), trent’anni dopo Si può dare di più non potrebbe dare di più alla musica italiana e stop? E che palle i libri di Francesco Guccini, non è Gadda, non è Simenon, allora cosa scrive a fare, meglio ascoltarsi Cyrano e trangugiar lambrusco, a nessuno viene in mente che Thomas Mann per scrivere il Doctor Faustus diventò un esperto di tecnica dodecafonica senza volersi sostituire a quel gran genio di Arnold Schönberg, d’altronde, chiccazzo legge ancora Mann, chi capisce Schönberg? In questa selva dei cretini meglio ricamare la storiella con morale esplicita. Boris Pasternak, il più grande poeta russo del Novecento, era anche un bravo musicista. Bravo, appunto. Non bravissimo. Il suo maestro di pianoforte era Aleksandr Skrjabin, uno dei più feroci compositori russi di sempre. Un grandissimo. Al cospetto di Skrjabin, Pasternak capì che era bene cambiare strada. Si diede alla poesia. Coi risultati – sommi – che sappiamo. Non ammetteva la modestia. I modesti, invece, tengono il piede in due scarpe, in due borse. Sono quelli tra palco e libreria. E a noi le mezze misure, le mezze pipe, non piacciono.
Federico Zampaglione e Giacomo Gensini, Dove tutto è a metà, Mondadori, pp.312, euro 18,00
La carota
A memoria, sono due gli esempi accettabili di cantautori-scrittori.
a) Umberto Fiori, che è stato la voce degli Stormy Six prima di diventare uno dei poeti italiani più lucidi degli ultimi trent’anni. Le sue Poesie 1986-2014, per altro, sono stampate da Mondadori, negli Oscar. Un nocciolo di versi belli: “Come vorrei anch’io/ spegnermi nella luce/ della cosa che resta,/ essere stato” (da Museo).
b) Leonardo Bonetti, capellone di 54 anni che è stato il guru del gruppo sperimentale Arpia. Nel 2009 il culmine e la svolta: s’inventa Racconto d’inverno, progetto uno e doppio, è un album musicale ed è un libro, di rara sapienza linguistica, contorto e tormentato, edito da Marietti. L’ho citato anche la volta scorsa. Non è colpa mia. Bonetti piace tanto anche a Walter Pedullà, se piace a lui una ragione c’è.
Nel caso a) come nel caso b), comunque, il poeta ha ucciso il cantante, il romanziere ha fagocitato il rocker, non potete avere il libro bello e il disco di ubriacante splendore. Se leggere vi fa venire il voltastomaco e volete ascoltare qualcosa di buono e stop, allora ascoltate Maria Antonietta. Lei in realtà si chiama Letizia Cesarini, ha 30 anni, cita Etty Hillesum e i resoconti del processo a Giovanna d’Arco, ama Cristina Campo e il suo mito è Sylvia Plath. Scrive belle canzoni, canta “ma quanto eri bello io volevo solo portarti a letto” e che è “troppo intelligente”. Non vuole scrivere un libro di poesie. Evviva.
Maria Antonietta, discografia omnia