L’ amore non sarà mai né giusto né sicuro (anche col divorzio equo)

Cambiano le regole per il divorzio. D'ora in poi la moglie avrà diritto al mantenimento in base alla propria capacità di lavoro. Giusto o sbagliato? Forse la cosa assurda è lil nostro tentativo di unire amore e fair play

A differenza di quello che leggiamo da giovedì sui giornali italiani, che sposarsi sia un “atto di libertà e responsabilità” non è stato stabilito dalla Cassazione quando, due giorni fa, ha deciso che la signora Lisa Lowenstein, ex moglie dell’ex ministro Vittorio Grilli, non riceverà assegno divorzile perché capace di provvedere a sé stessa. “Siete venuti a celebrare il Matrimonio senza alcuna costrizione, in piena libertà e consapevoli del significato della vostra decisione?”, chiede il sacerdote agli sposi prima dello scambio delle promesse, durante la messa nuziale, che è quell’oretta e mezza precedente le dieci ore che trascorriamo seduti a ingurgitare cibo precotto mentre davanti al nostro tavolo degli ottantenni ballano la Macarena. Nel rito civile, dopo aver letto gli articoli del codice civile che regolamentano la vita coniugale, il celebrante dichiara di aver proceduto a sposare i due convenuti perché hanno risposto “a piena intelligenza anche dei testimoni” di voler diventare marito e moglie.

Dunque, il matrimonio è atto di libertà e responsabilità da assai prima di questa sentenza, che quindi, per fare la rivoluzione e il “terremoto giurisprudenziale” (così ha detto il presidente degli avvocati matrimonialisti, Gian Ettore Gassani), attinge proprio dal senso del matrimonio. Se la legge che nel 1970 introdusse il divorzio in Italia ha fatto in modo che, fino a oggi, il coniuge economicamente più forte (quasi sempre il marito) garantisse a quello più debole un tenore di vita non troppo difforme da quello goduto in costanza di matrimonio, oggi la Cassazione ha deciso che al mantenimento di quel tenore non ha diritto chi “è economicamente indipendente o effettivamente in grado di esserlo”.

Esempio: se prima una donna disoccupata aveva automaticamente diritto al mantenimento, d’ora in poi i giudici valuteranno le sue “possibilità e capacità effettive” di lavoro personale e, se la riterranno capace di produrre reddito, non otterrà l’assegno. I criteri del merito e della trasparenza entrano per la prima volta nel regolamento dei conti di due divorziati e il divorzio estingue il vincolo matrimoniale non più solo sul piano personale, ma pure economico e patrimoniale, “sicché – hanno scritto i giudici della Cassazione – ogni riferimento a tale rapporto finisce illegittimamente con il ripristinarlo”. Sia chiaro che si tratta di una sentenza resa dalla Cassazione, peraltro non a sezione unite e per una famiglia particolare: non siamo ancora davanti a un cambio d’ordinamento. La giurisprudenza ha però risposto, prima della legge, a un paese dove molti padri finiscono sul lastrico per mantenere figli ed ex moglie, l’affidamento condiviso non esiste nei fatti (nel 95% dei casi i figli vanno ancora alle madri) e il falso abuso (un coniuge che accusa l’altro di violenze domestiche, allontanandolo così per anni dai figli) è un fenomeno in inquietante crescita.

Elsa Morante, pur essendosi separata (mai divorziata) dal suo Moravia, beneficiò della di lui incrollabile fede nel fatto che “il marito è tenuto a pagare le tasse dei redditi della moglie

Le reazioni sono discordi: per alcuni la sentenza è femminista perché riconosce alle donne la capacità di dotarsi di strumenti che le rendano indipendenti dall’ex marito, per altri è una vittoria della parità di genere (stavolta declinata anche in favore del lato maschile) destinata ad annichilire il matrimonio d’interesse, per altri ancora l’ennesima fregatura ai danni delle donne. “Sono la classica ex moglie italiana che con il divorzio ha perso tutto”, ha dichiarato a La Repubblica la signora Lowenstein, statunitense, così – comprensibilmente – amareggiata per aver perso un bel po’ di quattrini da aver dimenticato che tra i classici delle ex mogli all’italiana ci sono la signora Veronica Lario, che pur avendo pubblicamente schifato l’ex consorte Silvio Berlusconi, perché puttaniere e immorale, ha scatenato l’inferno quando anziché tre milioni di euro al mese, se ne è vista recapitare due ed Elsa Morante, che pur essendosi separata (mai divorziata) dal suo Moravia, beneficiò della di lui incrollabile fede nel fatto che “il marito è tenuto a pagare le tasse dei redditi della moglie” (“Quando verrai sarò quasi felice – lettere a Elsa Morante”, Alberto Moravia, Bompiani 2016), nonostante lei lo respingesse, gli desse del “piccolo borghese filisteo”, si innamorasse di pittori suicidi e registi, non si degnasse nemmeno di aiutarlo a compilare la dichiarazione dei redditi. Secondo la signora Lowenstein, la Cassazione non avrebbe riconosciuto che fare la moglie e la madre è un lavoro e che chi come lei rinuncia alla propria carriera, contribuendo esclusivamente a quella del marito, ha diritto a un rimborso per essere rimasta a organizzare le cene, i pranzi, la vita mondana, i traslochi, gli investimenti, i figli, le cameriere. “Come moglie ho contribuito in modo determinante alla ricchezza del mio ex marito”, ha dichiarato.

Quando Adele scalò, nel giro di pochi giorni, quasi tutte le classifiche mondiali con il disco 21, il suo ex fidanzato la tormentò per settimane, pretendendo una parte dei ricavi (arrivò a chiedere la metà del malloppo) perché la sofferenza che lui le aveva arrecato durante la loro relazione le aveva ispirato tutte le canzoni contenute nell’album. Adele è inglese. In Inghilterra, così come in molti altri paesi europei, vigono gli accordi prematrimoniali, che preservano i coniugi dalle battaglie legali sul patrimonio. Si può scegliere di arrivare all’altare dopo aver firmato un accordo che stabilisce a chi spetterà la macchina e a chi il garage, a chi le tazzine di porcellana e a chi la lavatrice, se uno dei due sborserà un tfr e chi se lo godrà. Eppure, amore e possesso non sembrano aver cessato di rincorrersi e inanellarsi, tanto che un fidanzato anglosassone chiede alla sua ex, icona del femminismo pop, prima donna della storia ad apparire struccata e in accappatoio sulla copertina di una rivista (il Rolling Stones, mica Famiglia Cristiana), di versargli le royalties della sua musica.

Nell’amore c’è il possesso e nel possesso ci sono la prelazione, l’imperialismo, la convinzione che quando qualcosa ci appartiene o ci è appartenuto, il suo destino resta nostro merito

Nell’amore c’è il possesso e nel possesso ci sono la prelazione, l’imperialismo, la convinzione che quando qualcosa ci appartiene o ci è appartenuto, il suo destino resta nostro merito. Giovanni Della Casa, il monsignore delle buone maniere, scrisse che “tra coloro che di ricchezze e di autorità diseguali sono, non è amore, ma utilità”. Diversi secoli dopo, Samantha Jones, in Sex and the City, zittisce le paturnie valoriali delle sua amiche spregiudicate a metà perché terrorizzate dall’ammettere i vantaggi del paradigma di Della Casa: “mia cara, gli uomini danno e le donne ricevono: biologicamente è scritto così”. Quindici anni fa, quando Samantha era un’icona della liberazione sessuale femminile e Lena Dunham (regista di Girls, il contro Sex and The City) era una bambina, le inferenze biologiche erano ancora consentite. Sexy, persino.

Oggi è molto diverso: la natura è artificiale, l’identità e il genere sessuale non combaciano, con i tabù non si gioca, il sottopotere reclama il suo trono e tutto ciò che è periferico pretende il centro (il femminismo, per esempio, si è fatto transizionale). L’assegno divorzile automatico, in questa congiuntura, è trasfigurazione maschilista, becero assistenzialismo, anacronismo, spia dell’inadeguatezza di un sistema del diritto che, tutelando, controlla. La Cassazione, allora, sembra essersi fatta interprete, termometro, misura del giusto e del tempo attuali, come solo la giustizia italiana sa fare, stabilendo che un uomo dà solo se la donna non può far altro che ricevere, cioè se è incapace di essere autonoma. E l’eco mediatica conseguita racconta di un giogo, quello dell’interesse, allentato, in favore di libertà e responsabilità che finalmente articolano l’amore. E’ amore vero quello di Holly e Paul, in Colazione da Tiffany, perché è un amore sprovvisto di orizzonte finanziario, perché non promette sistemazione ma avventura, eppure quando lui le dice di essere innamorato di lei e di volerla sposare, lei, che è bellissima, newyorchese, allenata agli espedienti, di certo autonoma per il suo tempo, risponde “E poi?”.

Holly si rifiuta di dare un nome al suo gatto perché a una creatura selvatica “più si vuol bene, più diventa ribelle”

Billy Wilder in Irma la Dolce fa dire a Jack Lemmon che a nessuno piace fare il cane randagio: “devi appartenere a qualcuno, anche se ogni tanto ti dà una pedata”.

Holly, invece, si rifiuta di dare un nome al suo gatto perché a una creatura selvatica “più si vuol bene, più diventa ribelle”.

Esisterà sempre un dislivello. Una diseguaglianza. Una soggezione. Una rinuncia. Cambiamo gli ordinamenti per tutelarcene perché sappiamo che sono inestinguibili. Ma l’amore è un’ingiustizia irrisolvibile che il matrimonio ha tentato di sanare con l’indissolubilità e il divorzio con la reversibilità: hanno fallito entrambi perché l’amore lo abbiamo modellato guardando il mondo e ascoltandone il tempo (è al presente che i giudici della Cassazione hanno fatto riferimento nella loro sentenza), di modo che ci fosse utile ad affrontarlo. Ora reclamiamo una scissione da quella utilità, considerandola becero opportunismo, convinti che l’amore imparerà la lezione, che l’impatto culturale lo travolgerà rendendolo equo, giusto e sicuro, come un mezzo omologato.

Chissà.

Intanto, godiamoci la possibile riparazione del dissesto finanziario di migliaia di poveri ex: l’abnegazione di Moravia non è mica un dovere.

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