La perenne campagna elettorale che sta inguaiando l’Italia (e serve solo ai politici)

Grillo, Salvini e Renzi insistono: servono elezioni subito. Ma veniamo da un 2016 di troppi appuntamenti elettorali ben poco necessari. Ma continueremo: dovremo rassegnarci a votare per dare conferme a leader in crisi di nervi

Dice che è urgente una nuova campagna elettorale, che “la gente ha voglia di votare”, e la data di ottobre – probabile punto di caduta della corsa ai seggi dopo il sì dei grillini al modello tedesco– sembra addirittura lontana se si dà retta alla mistica delle urne diffusa da Beppe Grillo, Matteo Salvini, e dallo stesso Matteo Renzi con la solidarietà ormai palese di Silvio Berlusconi. “Il Paese non aspetta”, dicono. “Il Paese è stanco di perdere tempo”. In realtà, l’unico sondaggio che nessuno ha fatto riguarda proprio questo: sicuri che gli italiani abbiano fretta di andare al voto? A nessuno viene il dubbio che, in realtà, siano un po’ stufi della campagna elettorale permanente che il Palazzo ha inflitto al Paese nell’ultimo anno e mezzo?

Appuntamenti elettorali interpretati dai partiti come battaglie ad alta valenza politica e addirittura “decisive”: persino l’irrilevante consultazione sulla durata dei permessi di estrazione di idrocarburi

Dal 2016 non ci siamo fatti mancare niente. Abbiamo avuto il primo referendum abrogativo della storia della Repubblica indetto su richiesta delle Regioni (sulle trivelle, il 16 aprile). Una bizzarra tornata amministrativa dominata dal voto nella Capitale, causa defenestrazione del sindaco da parte di chi lo aveva eletto (le Comunali del 5 giugno). Un Referendum Costituzionale (4 dicembre 2016), e ora ci avviamo verso le amministrative dell’11 giugno, dopo aver evitato per un soffio la consultazione sui voucher che pure era nelle previsioni. Non solo abbiamo votato molto, ma ci siamo tolti anche lo sfizio di consultazioni “fuori calendario”, impreviste, determinate da conflitti interni alle istituzioni (le trivelle), scontri nei partiti (Roma) o dai cronoprogrammi di singoli leader (il voto sulla Riforma Boschi, sette mesi infiniti tra l’indizione del referendum e il suo effettivo svolgimento).

Quattro convocazioni ai seggi, quattro campagne al vetriolo, in tredici mesi. Mai, nemmeno nella Prima Repubblica, rinomata per la scarsa stabilità dei governi e degli assetti politici, si era avuto una simile, nevrotica scansione di appuntamenti elettorali, tutti – tra l’altro – interpretati dai partiti come battaglie ad alta valenza politica e addirittura “decisive”: persino l’irrilevante consultazione sulla durata dei permessi di estrazione di idrocarburi ha visto scendere in campo “i big”, che l’hanno trasformata in questione di vita e di morte, fra inviti all’astensione e “Ciaoni” elargiti agli sconfitti.
Uno spettacolo immaginabile ai tempi del divorzio o della scala mobile, quando in gioco c’erano questioni davvero divisive e fondanti, non certo per una scelta che riguardava marginali faccende autorizzative, sconosciute ai più e dai più ignorate.

Sbaglia chi attribuisce la volata verso le politiche anticipate solo alle volontà egemoniche di Matteo Renzi. L’ex premier non è che uno dei “soggetti deboli” convinti di trarre giovamento da un’accelerazione

La mistica delle urne, però, prevale ancora. E sbaglia chi attribuisce la volata verso le politiche anticipate solo alle volontà egemoniche di Matteo Renzi. L’ex premier non è che uno dei “soggetti deboli” convinti di trarre giovamento da un’accelerazione e spaventati dalla possibilità che il voto a scadenza, nel 2018, seppellisca le loro ambizioni.

È preoccupato Beppe Grillo, che vede già la battuta d’arresto alle prossime amministrative (è dato perdente da tutti i sondaggi) e teme il reflusso dell’onda lunga dei populismi che tanto lo ha avvantaggiato. Ha paura Silvio Berlusconi, ormai molto anziano, capo di un partito che non potrebbe reggere un’ulteriore fase di stallo fuori dalle stanze del potere. E persino Matteo Salvini, così sicuro di sé, così assertivo, dopo l’insuccesso di Marine Le Pen in Francia, ha fretta di portare a casa un tot di deputati e la palma di neo-leader del centrodestra, prima che emerga qualcun altro o qualcos’altro dalle ceneri del berlusconismo.

Per questo anche se si è votato molto, tutto fa pensare che toccherà rivotare e abbandonare l’idea che sembrava prevalere all’insediamento di Paolo Gentiloni: un biennio di tranquillità, routine, magari un po’ noioso ma utile a rimettere a posto le partite centrali del Paese, a cominciare dal rapporto con l’Europa. Sembra ieri, e in effetti era soltanto la vigilia del Natale scorso: a Ferragosto già ci ritroveremo in spiaggia coi volantini elettorali tra le mani, chiedendoci che fare.

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