Marta Russo, un caso in cui “il garantismo è fuori luogo”

Il giornalista Vittorio Pezzuto nel suo nuovo libro "Marta Russo. Di sicuro c'è solo che è morta", dimostra i gravi errori giudiziari che hanno portato alla condanna di Scattone e Ferraro, e propone due alternative

In questo omicidio il garantismo è fuori luogo“: così scrisse Dacia Maraini sul Corriere della Sera il 12 agosto 1997 a proposito dell’uccisione di Marta Russo, la giovane studentessa di giurisprudenza che la mattina del 9 maggio dello stesso anno fu raggiunta alla testa da un colpo di pistola che si rivelerà mortale, mentre passeggiava, in compagnia dell’amica Iolanda Ricci, in un viale dell’Università de La Sapienza di Roma. Quel venir meno del principio costituzionale della presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva, gridato a voce alta dalla scrittrice femminista, ha caratterizzato tutta l’indagine investigativa e i processi per la morte della ragazza che, dopo cinque gradi di giudizio, si sono conclusi con una condanna definitiva per omicidio colposo aggravato e favoreggiamento inflitta agli assistenti di Filosofia del Diritto, Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro: questa è la tesi che il giornalista Vittorio Pezzuto, già noto come scrittore per “Applausi e sputi, le due vite di Enzo Tortora” (Sperling&Kupfer), cerca di dimostrare nel suo nuovo libro Marta Russo Di sicuro c’è solo che è morta (664 pagine, 16,64 euro) che è in vendita esclusivamente su Amazon, perché nessuno editore ha voluto pubblicarlo, adducendo varie scuse: il libro è poco interessante, la vicenda è stata dimenticata, temiamo querele da parte dei magistrati coinvolti, in primis Italo Ormanni e Carlo Lasperanza. Oggi è però al ventesimo posto nella classifica Bestseller di Amazon. Si tratta un testo altamente documentato, una vera contro-inchiesta rispetto al finale offerto dalle sentenze: l’autore ha raccolto nel suo personale archivio 18 faldoni contenenti tutte le carte dell’indagine e dei processi – trascrizioni delle udienze, intercettazioni telefoniche e ambientali, interrogatori, perizie balistiche -, ha letto tutti i lanci di agenzia dell’Ansa dal 1997 al 2015, nonché i circa 8000 articoli e editoriali sul caso pubblicati sui quotidiani e periodici. La conclusione a cui giunge è che Scattone e Ferraro sono vittime di uno dei più grandi e gravi errori giudiziari del nostro Paese e che al tempo gli inquirenti non hanno approfondito piste alternative.

Proprio nel finale del libro, che gli appassionati possono senza dubbio definire un legal thiller con continui colpi di scena, Pezzuto propone altre soluzioni al giallo che scosse e divise l’Italia: Marta sarebbe stata scambiata per un’altra ragazza: forse una ragazza messinese, Anna La Fauci, figlia di un imprenditore che aveva denunciato per estorsione e usura dei criminali, il capomafia di Messina Luigi Sparacio e sua suocera Vincenza Settineri, finiti in manette per la prima volta e che per vendetta avrebbero mandato dei sicari ad uccidere la figlia del loro accusatore. Lo scambio di persona potrebbe essere avvenuto anche con la studentessa fuori corso di Frosinone, Roberta Novelli, il cui padre era stato più volte minacciato di morte da boss locali. Ma per l’autore ci potrebbe essere anche la mano delle Nuove Brigate Rosse dietro il delitto: il romano Paolo Broccatelli, ritenuto responsabile di aver contribuito alla preparazione dell’attentato al docente del Diritto del Lavoro Massimo D’Antona, aveva ricevuto il compito di seguire gli spostamenti del professore a La Sapienza. Faceva le pulizie part-time all’interno della cittadella universitaria e uno dei luoghi assegnatogli era proprio il bagno riservato ai disabili della Facoltà di Scienze Statistiche, ritenuto da Digos e Squadra Mobile nei primissimi giorni di indagine il “più credibile luogo da cui è stato esploso il colpo“.

Ma quello che Pezzuto mette soprattutto in evidenza nel saggio sono le lacune di una inchiesta iniziata male e finita peggio. Gli inquirenti avevano fretta di trovare un colpevole a tutti i costi perché a Roma c’erano già stati molti casi irrisolti, i più noti quelli di Simonetta Cesaroni e quello della contessa Alberico Filo della Torre. La pressione mediatica, delle autorità e dell’opinione pubblica era dunque altissima. E questo, secondo il giornalista, è stato uno dei motivi che ha dato vita a molti errori investigativi e a sentenze che alla fine hanno sì smontato la tesi della Procura di omicidio volontario ma, non potendo bocciare completamente il lavoro investigativo portato avanti dai pubblici ministeri Ormanni e Lasperanza, hanno anche prodotto il verdetto al ribasso dell’omicidio colposo, pur mancando elementi fondamentali come il movente. Infatti, come scrisse il Tribunale della Libertà Il delitto è di una gravità sconcertante proprio perché il movente che ha determinato l’azione omicida è l’assenza di movente specifico direttamente connesso con la vittima”. A mancare è anche l’arma del delitto, una pistola calibro 22 mai ritrovata. Per non parlare delle risultanze dell’aula 6 di Filosofia del Diritto, mai sottoposta a sequestro e rimasta accessibile a tutti fino al 20 maggio e dalla quale, secondo gli inquirenti e i giudici, sarebbe partito il colpo: durante il processo, il perito balistico consulente della pubblica accusa fu sostituito all’ultimo momento, ufficialmente per troppi impegni di lavoro, ma poi, grazie ad una intercettazione, si venne a scoprire che non volle andare in Aula a dire il falso. “Loro (ndr: riferito all’accusa) il colpo vogliono farlo partire assolutamente da lì. Ma io non ci sto a questi giochi“. Persino la perizia collegiale della Corte D’Assise rilevò che “gli elementi tecnici risultati dalle indagini non indicano il coinvolgimento degli imputati in quello sparo“. Rilevante anche le analisi scientifiche sulla particella binaria (bario + antimonio) ritrovata sul davanzale dell’aula, ritenuta dagli investigatori la prova dello sparo ma che, persino da Scotland Yard, fu ritenuta un residuo di frenatura d’auto.

Giovanni Sabatucci ipotizzava che anche gli inquirenti più onesti potessero prendere delle cantonate “tanto più quando si affidano, anziché al metodo induttivo che dovrebbe essere proprio di ogni investigatore, ad una logica tipicamente deduttiva, quando cioè si affezionano ad un’ipotesi di lavoro e solo in base ad essa vagliano fatti e testimonianze

Ma allora perché Scattone e Ferraro sono stati condannati? Pezzuto ne fa una questione di metodo e di merito. Per il primo aspetto cita lo storico Giovanni Sabatucci che dalle colonne del Messaggero ipotizzava che anche gli inquirenti più onesti potessero prendere delle cantonate “tanto più quando si affidano, anziché al metodo induttivo che dovrebbe essere proprio di ogni investigatore, ad una logica tipicamente deduttiva, quando cioè si affezionano ad un’ipotesi di lavoro e solo in base ad essa vagliano fatti e testimonianze“, tanto è vero che chiunque nella varie fasi processuali si sia azzardato a difendere Ferraro e Scattone è stato prontamente accusato di favoreggiamento. Nel merito Pezzuto lascia spazio alle testimonianze a cui hanno creduto i giudici togati e popolari, quelle fondamentali per l’accusa di Maria Chiara Lipari, figlia dell’ex senatore democristiano e assistente di Bruno Romano, direttore dell’Istituto di Filosofia, anch’egli accusato di favoreggiamento e poi scagionato, e quella della segretaria dell’Istituto Gabriella Alletto. La Lipari nei primi giorni dichiarò di non aver visto nessuno nell’Aula 6 perché, come confessò al suo professore Romano, “se avessi visto una persona con la pistola in mano non mi farei nessunissimo scrupolo di andarlo a dire” ma poi, grazie all’aiuto degli inquirenti, riuscì a scavare nel suo ‘livello subliminale’ e a collocare sempre più persone nel luogo del delitto. Riguardo all’aiuto a ricordare fornitole dagli investigatori è la stessa Lipari in una intercettazione telefonica a parlarne: e questi fino alle cinque di mattina hanno voluto assolutamente che dal subconscio…dall’ano proprio del cervello, mi venisse in mente qualche faccia, qualche immagine. Questo diceva: sputtano lei, sputtano suo padre! Per intimidirti, per costringerti. Mi dicevano sì, però allora ti incolpiamo a te, per cui dillo“. Stesso trattamento lo ha ricevuto la Alletto, che in 14 interrogatori diede una mezza dozzina di versioni differenti. All’inizio anche lei non aveva visto nulla, addirittura durante una conversazione avvenuta nell’anticamera dell’ufficio del pm Lasperanza tra lei e suo cognato, l’ispettore di Polizia Luigi Di Mauro, che l’aveva accompagnata a deporre l’11 giugno pronunciò queste frasi: ” Ma Gì, io non ce stavo là dentro, te lo giuro sulla testa dei miei figli. […] Ma io devo essere una persona leale o una persona sleale, Gino?“; il cognato non aveva dubbi: “Devo essere? Oh! Quando ci so’ sti reati qua, devi essere sleale!”. Ma siccome la donna non voleva abdicare alla verità, intervenne Ormanni a farle cambiare idea e a trasformarla nella super testimone:”Signora Alletto, io posso capire che lei può voler coprire qualcuno, ma sei lei insiste in questa situazione non sta coprendo qualcuno, sta coprendo se stessa! Significa che l’omicidio l’ha fallo lei! La prenderemo per omicida!”. Come ricorda Pezzuto, ben la descrisse Giuseppe D’Avanzo sul Corriere della Sera: “Gabriella Alletto è una piccola donna che ha perduto ogni innocenza, senso civico, spirito solidale, se li ha mai avuti. Il fondo della sua vita è l’opportunismo spicciolo“. Ma anche volendo sorvolare dalle considerazioni personali, sarebbe bastato leggere il parere scientifico del neurofisiologo Piergiorgio Strata, consulente della difesa, nel punto in cui scrisse che “i ricordi sono abbastanza fedeli immediatamente dopo l’esperienza ma tendono ad essere più imprecisi con il passare del tempo“, per mettere in dubbio le rilevazioni a rate delle due donne.

A fare da cornice a quello che avveniva nelle sale interrogatorio e in tribunale era il primo grande processo mediatico d’Italia. Mai come nel caso Marta Russo la stampa ebbe la capacità, ormai ben acquisita, di costruire i mostri, di spettacolarizzare gli eventi e di emettere la sentenza prima dei giudici. Come scrisse Francesco Merlo sul Corriere della Sera “dopo quelle politiche è questa la prima vera, grande istruttoria collettiva, una specie di apocalisse del delitto. Manca solo un numero verde per avere o dare suggerimenti ai pm o al questore o al capo della Mobile o, perché no?, agli imputati. È come se l’Italia intera dirigesse e seguisse le indagini, tutte le indagini minuto per minuto“. Gli avvocati difensori lamentavano il fatto che spesso erano costretti a leggere notizie importanti riguardanti i loro assistiti sui giornali, invece che riceverle dalle autorità preposte; i contenuti dei verbali di interrogatorio, ricorda inoltre Pezzuto, che dovevano essere protetti dal segreto istruttorio, erano perfettamente trascritti dai giornalisti intenti a “ricamare con eccezionale insistenza sulle perversioni degli arrestati“. Ed ecco quali sarebbero state queste perversioni: elenco di “reperti” sequestrati nella stanza di Scattone che per Patricia Tagliaferri de Il Giornale “potrebbe far saltare dalla sedia anche il più garantista del giudici popolari“, ossia libri: ‘Il diavolo’ di Alfonso Di Nola, ‘Il diritto di morire’ di Hans Jonas, ‘Eutanasia, valori, scelte morali, dignità delle persone’ di Demetrio Neri. Ma come non dimenticare lo sfogo della sorella di Salvatore Ferraro, Teresa, a Repubblica: Lo sa cos’hanno scritto sulla biancheria intima femminile trovata in casa a Roma? Si sono domandati se non l’indossasse Salvatore…Ridicolo. È che abbiamo solo una lavatrice, che la biancheria sua la lavo assieme alla mia! Le allusioni sono state feroci”.

Vittorio Pezzuto termina il suo libro inchiesta raccontando qual è la vita che oggi conducono Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro: il primo, che ha conosciuto sua moglie Cinzia mentre era rinchiuso in carcere e a cui la donna mandava lettere mentre si laureava, al momento si arrangia facendo traduzioni (conosce tre lingue) e correggendo testi, con la speranza di lavorare come storico in qualche Istituto o fare il ghostwriter. Pur avendo un posto di ruolo come docente (classificandosi decimo in tutto il Lazio), ha deciso di abbandonare la cattedra perché appena si è saputo che insegnava è scoppiata una nuova campagna mediatica contro di lui, che pur ha scontato la sua pena in carcere e chiuso i conti con la giustizia, la stessa giustizia che prevede la riabilitazione del detenuto e il suo reinserimento nella società. La mancanza di serenità mi induce a rinunciare all’incarico per rispetto degli alunni che mi sono stati affidati“, e che lo hanno sempre apprezzato, commenta Scattone. “È stata fatta giustizia” replica la signora Russo. “E invece no, signora, è stata ridotta a brandelli” scrive Pezzuto. Salvatore Ferraro invece ha iniziato a occuparsi di temi riguardanti il carcere e i detenuti militando nel Partito Radicale, gira l’Italia con la rock band ‘Presi per caso’, nata nel 1997 nel carcere di Rebibbia e composta esclusivamente da ex galeotti, insegna in un Istituto privato e con la moglie Silvia gestisce la libreria di famiglia. Una carriera spezzata dunque quella due dottorandi. “Questa è la fine della sua brillante carriera, dottor Ferraro” gridavano gli inquirenti quando il ragazzo non voleva accusare Scattone dell’omicidio per tornare libero. “Con una coscienza pulita sarà facile ricominciarne un’altra” replicò Sasà.

X