Il bastone. Massimo Recalcati è il ‘tronista’ degli psicoanalisti. Belloccio, fotogenico – basta vedere l’agiografica fotografia che troneggia sul sito personale: camicia adeguatamente slacciata, sguardo virile, mano destra che maneggia l’occhiale – con il carisma dell’Apollo da tivù, Recalcati piace alle casalinghe disperate e alle quarantenni rampanti – non c’è una che non ti trituri le meningi, “hai letto quant’è bello il suo Telemaco?”, dacché non potendo avvinghiare lo psicoanalista per la cravatta almeno ne posseggono l’appendice fallica libraria – perciò piace pure al PD, per cui ha edificato una “scuola di partito”. Intellettualmente, Recalcati shakera American gigolò al Seminario di Jacques Lacan: una efficace sintesi è l’ultimo libro – di fatto, un centone che “raccoglie, sistematizzandoli, i contenuti di tre diverse conferenze” – dedicato al più arcano dei temi, “l’enigma del figlio”. Recalcati si svela qui per quello che è, il Re Mida della Tautologia. Nel senso che riesce a tramutare in libro – e in vendite – quello che sanno tutti. Esempio. Tutti sappiamo che i figli so’ piezz’e core, ma non sono proprietà privata dei genitori, appartengono alla vita. Ecco, questa verità semplice come un panino al prosciutto Recalcati la dice così: “Un figlio non è precisamente un punto di differenza, di resistenza, di insorgenza incontenibile alla vita?”. In questo modo ottiene due effetti editorialmente vincenti: non dice nulla di nuovo, si imbeve di una ovvietà, ma dà l’idea a chi legge di essere intelligente. Il lettore si crede intelligente perché legge una cosa che ha sempre saputo – credendo che Recalcati sia un intelligentone. Dal momento che oggi “il figlio assomiglia sempre più a un principe al quale la famiglia offre i suoi innumerevoli servizi” (ennesima tautologia), Recalcati ci fa la ramanzina. Prima racconta quello che sa anche il più tonto tra gli studenti di psicologia: la storia di Edipo. La racconta così, come se fossimo tutti rimbambiti. Poi scocca la morale, “Edipo è l’emblema del figlio come soggetto sfasato, dissestato, slogato, decentrato”. E già che c’è rintocca l’aforisma: “tutti noi siamo in fondo nella condizione di Edipo. Nessuno di noi sa veramente chi è”, che novità. Ciò che fa sorridere di Recalcati è che si ostina a profondere questi pensieri-confetto come se, chessò, Pascal, Spinoza, Nietzsche, Heidegger, Bergson, Lacan non fossero mai esistiti, banalizza per tutti reclamizzando se stesso. A questo punto, che si applichi a fare delle applicazioni per l’iPhone, ti fa la lezione nelle orecchie, mentre sei a pilates, ottima ginnastica mentale per strafatti di noia. La parte più ghiotta, però, accade quando Recalcati, che non avrà l’invidia del pene ma forse quella del pulpito sì, chiosa la “parabola del figlio ritrovato”. Recalcati castra la violenta novità del Vangelo di Luca, riducendo la parabola a un bigino per genitori smarriti. Con tono curiale lo psicoanalista fa cenno al tempo presente (“molti adolescenti ribelli che fondano la loro libertà sul consumo delle sostanze più che sull’interpretazione dell’eredità come compito”) e propone il perdono come una manna. “Il perdono non è meritato dal figlio, non premia l’avvenuto pentimento. Piuttosto è ciò che lo rende veramente possibile”, dice Recalcati, facendo del perdono qualcosa tra il condono e il ricatto. Recalcati pare ignorare che il perdono è possibile proprio perché immeritato, sulla soglia dell’imperdonabile. Per altro, lo psicoanalista di fama non fa cenno all’arbitrarietà di Dio, rifiuta di gemellare questa parabola con quelle altre parole di Gesù, calcate dall’evangelista Luca, “Pensate che sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. (…) Si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre” (Lc 12, 51-53), non ha letto neanche Sergio Quinzio, la cui prospettiva in merito è ben più interessante (“non gli dà il tempo di chiedere perdono, non lo ascolta neppure, perché ha premura solo di consolarlo”). Così, l’apoteosi psicoanalista – e terra-terra – del perdono che “rende nuovamente la vita viva”, tramuta la parabola del figliol prodigo nell’elogio del bamboccione di ritorno. Il figlio si sputtana i soldi del padre. Torna a casa. E si fa festa, olè. Con molte grazie a Recalcati da parte di milioni di famiglie italiane.
Massimo Recalcati, Il segreto del figlio, Feltrinelli, pp.128, euro 15,00
La carota. Nato 100 anni fa a Torino, non ci pare che il nostro Belpaese si sia spaccato il cervello per onorare a dovere Giorgio Colli. Errore madornale, perché Colli, pensatore eccentrico, è un antidoto ai Recalcati odierni e benedico ancora Apollo perché il prof del Liceo ci obbligò a leggere La nascita della filosofia, un libro piccolo così – son poco più di cento pagine – che contiene più sale dell’opera omnia di un emerito accademico pigliato a casaccio. Giorgio Colli non fu, in effetti, soltanto un geniale studioso dei Presocratici – i suoi risultati nei tre tomi della Sapienza greca editi da Adelphi – un fine esegeta di Kant e di Schopenhauer, l’alfiere che ha curato l’opera omnia di Nietzsche (per Adelphi) e che ha condotto la più luminosa avventura editoriale mai capitata in Italia (la leggendaria ‘Enciclopedia di autori classici’ creata per Paolo Boringhieri, dove, specie di anarchico Eden per vagabondi in cerca di meraviglia, coabitavano Newton e Goethe, Einstein e Omar Khayyam, Stendhal e Buddha, Gorgia, Charles Darwin e Hölderlin). Fu, Colli, soprattutto, sempre, un imprendibile pensatore. I quaderni di appunti tenuti tra il 1955 e il 1977, pubblicati postumi come La ragione errabonda, sono la grotta di un Diogene inappagato e furibondo. Con gioia bimba e linguaggio accessibile – cioè senza necessità di mostrarsi intelligente – Colli distrugge i filosofi (“Oggi la parola filosofo non stimola l’animo con violenza, induce piuttosto allo sbadiglio”) e la storia della filosofia (“si deve negare nel modo più reciso la storia della filosofia. Ciò che ogni pensatore ‘prende’ da un predecessore vicino o lontano non è altro se non quello che voleva trovare da qualche parte, pur esistendo soltanto nella sua mente”), denuncia i legami – necessari e ricattatori – tra Stato e cultura (“Lo Stato dispone di una massa di muoni, ma per dominarla concretamente, per guidarla secondo i suoi fini, ha bisogno della cultura. (…) Lo Stato ha quindi bisogno degli educatori, che agiscano secondo i suoi fini”) e devasta il sistema scolastico (“La scuola non può essere riformata, ma solo combattuta”). Già che c’è, Colli recensisce anche l’attitudine dei Recalcati, degli intellettuali scalpitanti nei salotti editoriali o televisivi. “Il chiasso fittizio suscitato dai loro scritti e dalle loro discussioni basta a saziarli”, scrive Colli. “Così si recita oggi, fra il plauso generale, la commedia dell’impegno politico dell’intellettuale e della presa di coscienza dei problemi dell’oggi”.
Giorgio Colli, La ragione errabonda. Quaderni postumi, Adelphi, 1982