Licenziare, e con “effetto immediato”, un direttore dell’Fbi non è cosa di tutti i giorni. E infatti Donald Trump, che ha mandato a casa James Comey, è solo il secondo presidente nella storia degli Usa ad aver preso una simile decisione.
Il primato spetta a Bill Clinton che nel 1993 si sbarazzò a quel modo del direttore Bill Sessions, finito sotto inchiesta per una storia di tasse non pagate sull’uso di una limousine e per aver scaricato sull’Agenzia i costi della costruzione di una recinzione protettiva intorno alla propria casa. Per la cronaca, Sessions non fu mai processato, è tuttora membro dell’Ordine degli avvocati e fa parte della task force che l’Ordine stesso ha costituito per esaminare la costituzionalità dei cosiddetti signing statements, i commenti che i Presidenti redigono quando firmano la conversione di un progetto di legge in legge. Cosa c’entra Sessions con Comey? Lo vedremo tra poco.
Dato il giusto peso alla cacciata di Comey, non resta che farsi la domanda brutta sporca e cattiva, quella che tutti sembrano evitare come la peste. Questa: e se Donald Trump avesse ragione? Sì sì, lo so che non si deve. E so anche che Trump, per sbarazzarsi di Comey, ha tirato in ballo la gestione del “caso Clinton”, una scusa bella e buona. Se però proviamo a ragionare a mente fredda, e non solo in base al fatto che Trump sta a molti sulle scatole e conduce (o dice di condurre) una politica a molti invisa, le cose prendono un aspetto un po’ diverso.
Che cosa avremmo detto se tre mesi dopo l’elezione del nostro presidente Sergio Mattarella, i vertici dei servizi segreti e dei carabinieri fossero andati in Parlamento, e poi in Tv e presso i giornali amici, a dire che avevano messo sotto inchiesto il neo-eletto perché forse era stato aiutato a ottenere la carica da una potenza straniera e ostile?
Punto primo: Trump ha diritto a licenziare il direttore dell’Fbi? Sì, certo. Il Presidente lo nomina (come nomina altri 6 mila alti funzionari statali, tra i quali anche il direttore della Cia), il Senato lo conferma, il Presidente può rimuoverlo. Succede di rado? Certo, lo abbiamo visto. Attenzione, però. Il direttore dell’Fbi è nominato per un singolo mandato di 10 anni, misura precauzionale presa dopo il caso di Edgar J. Hoover, che rimase al vertice più di 48 anni tenendo sotto scacco, e forse ricattando, nove Presidenti. Ebbene, nell’evo moderno dell’Fbi (cominciato nel 1935), solo un direttore ha valicato la soglia dei dieci anni: Robert Mueller, entrato in carica una settimana prima degli attentati delle Torri Gemelle nel 2001, al quale Barack Obama nel 2011 chiese di rimanere in carica per altri due anni, per sostituirlo nel 2013 appunto con Comey. Tutti gli altri hanno lasciato ben prima della scadenza naturale del mandato, e alcuni sono durati pochissimo come William Ruckelshaus (70 giorni nel 1973), James Adams (8 giorni nel 1978) e Floyd Clarke (44 giorni nel 1993). Quanto a Sessions… Certo, lui fu fatto fuori con quattro pezze contabili. Ma la ragione vera era ben altra: Sessions aveva annunciato di voler indagare sull’operato del ministero della Giustizia in un caso di frode bancaria legato ad alcuni prestiti concessi all’Iraq di Saddam Hussein prima della Guerra del Golfo del 1990-1991. Due giorni dopo l’annuncio Sessions si trovò sotto inchiesta per la limousine e la recinzione. Buffo, no?
Punto secondo: quello che avviene a Trump secondo voi è normale? Che cosa avremmo detto se tre mesi dopo l’elezione del nostro presidente Sergio Mattarella, i vertici dei servizi segreti e dei carabinieri fossero andati in Parlamento, e poi in Tv e presso i giornali amici, a dire che avevano messo sotto inchiesto il neo-eletto perché forse era stato aiutato a ottenere la carica da una potenza straniera e ostile? E questo perché l’aveva detto un avversario politico del nuovo Presidente (nel caso di Trump, Barack Obama)? Ma in Italia il Presidente lo sceglie il Parlamento. Andiamo in Francia: se fra tre mesi Emmanuel Macron subisse lo stesso trattamento non parleremmo di situazione eversiva? Di tentativo di colpo di Stato? Anche perché intanto il tempo passa e questa famosa inchiesta sui rapporti tra Donald Trump e la Russia di Putin non ha prodotto altri risultati se non quelli (modesti e da tutti, anche dai vari Comey e James Clapper, l’ex generale ora direttore della National Intelligence, definiti non decisivi) esibiti appunto mesi fa in questo e in quest’altro rapporto. Eppure si era letto ovunque che le prove erano chiare ed evidenti, no?
La Clinton i voti li ha presi (oltre tre milioni più di Trump) ma non negli Stati giusti per vincere secondo il sistema elettorale americano. E questo non può essere il prodotto né degli annunci di Comey né dei furti degli hacker, che non potevano certo dirigere i flussi elettorali verso uno Stato piuttosto che un altro
Punto terzo: le prove, appunto. Hillary Clinton ha ripetuto spesso che se l’elezione si fosse svolta qualche giorno prima, lei ora sarebbe alla Casa Bianca. Il 28 ottobre 2016, con il voto fissato per l’8 novembre, il direttore dell’Fbi scrisse una lettera ai leader del Congresso per informali sull’intenzione di riprendere l’indagine sulla Clinton e sull’uso delle informazioni riservate che lei aveva girato ai suoi server privati quand’era segretario di Stato. Indagine che Comey aveva già chiuso nel luglio precedente dicendo di non aver trovato elementi per incriminare la candidata.
A elezione persa, la Clinton, il Partito democratico e la Casa Bianca hanno cambiato narrazione, accusando della sconfitta gli hacker che si erano intrufolati nei server del Partito democratico, a loro dire su mandato di Vladimir Putin. Quelle mail, è la tesi, avevano fatto fare brutta figura alla Clinton e compromesso un’elezione che pareva certa.
In realtà, la Clinton i voti li ha presi (oltre tre milioni più di Trump) ma non negli Stati giusti per vincere secondo il sistema elettorale americano. E questo non può essere il prodotto né degli annunci di Comey né dei furti degli hacker, che non potevano certo dirigere i flussi elettorali verso uno Stato piuttosto che un altro.
Ma non importa, andiamo oltre. L’influsso della sortita di Comey è chiaro: se la Clinton ha agito male da segretario di Stato, come potrebbe essere un valido Presidente? Questo il ragionamento che essa può aver indotto in una parte dei votanti. Ma le mail hackerate dai (per dir così) servizi segreti russi e diffuse da Wikileaks? In quei quasi 20 mila pezzi di corrispondenza emergeva poco o nulla di diffamante per la Clinton. Certo, risultava che il Partito democratico l’aveva favorita per tutto il corso delle primarie a scapito di Bernie Sanders, tanto che Debbie Wasserman Schultz, presidente del Comitato nazionale democratico, aveva dovuto dimettersi subito dopo la convention che aveva incoronato la Clinton. Ma questo accadeva nel luglio 2016 e in novembre (cinque mesi dopo) la scelta era tra Clinton e Trump, e basta. Per il resto, tutti i grandi giornali internazionali si erano precipitati a garantire che in quella caterva di mail non c’era nulla (a parte qualche pettegolezzo; lei è nervosa, la figlia Chelsea viziata e spocchiosa…) che potesse fermare la marcia trionfale della Clinton. Basta recuperare l’Independent, che parlava di “noia mortale”, o il Guardian, sulla stessa linea. Giornali certo non simpatizzanti per Trump. Ancora oggi non si riesce a leggere il testo reale di una mail, una sola, che potrebbe aver messo in cattiva luce la candidata democratica al punto da farle perdere l’elezione.
Flynn ebbe una conversazione telefonica con Sergej Kislyak, ambasciatore russo negli Usa, in cui trattò la questione delle sanzioni americane contro la Russia a causa della crisi in Ucraina, ma il colloquio Flynn-Kislyak avvenne quando Trump era già stato eletto
Punto quarto: il Russiagate. Sotto la pressione dell’inchiesta e dei suoi misteri, Trump ha subito colpi importanti. Paul Manafort, noto lobbysta (al servizio, in passato, anche di Marcos e di Mobutu) e direttore della sua campagna elettorale, dovette dimettersi per aver avuto rapporti non chiari (l’accusa, mai provata, è di aver ricevuto 12 milioni di dollari in nero) con Viktor Yanukovich, ex presidente filorusso dell’Ucraina. Manafort lavorò con Trump dal marzo all’agosto 2016.
Molto più imbarazzante di quello di Manafort, però, è stato il caso di Michael Flynn, ex capo dei servizi segreti militari, scelto da Trump come consigliere per la sicurezza nazionale. Flynn ebbe una conversazione telefonica con Sergej Kislyak, ambasciatore russo negli Usa, in cui trattò la questione delle sanzioni americane contro la Russia a causa della crisi in Ucraina. Questo proprio il giorno (29 dicembre 2016) in cui il presidente Obama inaspriva tali sanzioni a causa delle presunte interferenze russe nella campagna elettorale. Il 13 febbraio Flynn, doverosamente, diede le dimissioni. Aveva violato la Legge Logan, che vieta ai cittadini americani, se non autorizzati ufficialmente, di trattare con esponenti di altri Paesi dispute che riguardino gli Usa.
Però… Il colloquio Flynn-Kislyak avvenne quando Trump era già stato eletto. Flynn, da ex ufficiale dell’intelligence, non poteva non sapere che ogni sua parola sarebbe stata registrata, sia per il suo passato militare sia perché l’ambasciatore russo è una delle persone più seguite e controllate (vogliamo dire: spiate?) tra quelle che vivono negli Usa. Si organizza così un complotto? O non è piuttosto un caso di ego ipertrofico e colossale stupidità messe insieme?
Conclusione. Perché non dovremmo chiederci se per caso Trump ha ragione? È davvero così impossibile pensare che tutta questa storia degli hacker e dei rapporti di Trump con la Russia sia la trappola molto ben congegnata lasciatagli in eredità dal predecessore Obama? E se è impossibile, qualcuno mi spiegherebbe perché?