Scuole in comune e ostetriche di paese: così si salvano i piccoli comuni dallo spopolamento

Il 29 e 30 maggio ad Aliano si tiene il Forum delle aree interne, dove 180 tra sindaci e progettisti si incontrano per fare il punto sulla Strategia nazionale aree interne, che ha l’obiettivo di salvare il 60% del territorio italiano

Oltre 300mila chilometri quadrati. Il 60% del territorio italiano. Quasi 13,3 milioni di abitanti. Sono le cosiddette “aree interne”: zone di montagna, di campagna, frazioni isolate, inerpicate su strade tortuose lungo le Alpi e gli Appennini, distanti da scuole, ospedali e servizi. Territori da cui a poco a poco in tanti stanno facendo le valigie. Più della metà dei comuni italiani, che rischiano lo spopolamento: ragazzi e famiglie partono e non tornano più. È contro questi viaggi di sola andata che si muove la Strategia nazionale aree interne (Snai), messa a punto nel 2013, e finanziata con una dotazione complessiva di 190 milioni di euro (tra il 2015 e il 2018). Il 29 e 30 maggio ad Aliano (Matera) si incontrano 180 sindaci, progettisti e amministratori impegnati nella trasformazione di questi luoghi per fare il punto su quanto è stato fatto e quanto ancora resta da fare.

Si parte con 12 programmi già approvati e in fase di decollo. Dal Tigullio alla Valchiavenna, passando per Abruzzo e Umbria fino ad arrivare a Puglia, Campania e Sicilia. I Comuni coinvolti sono 1.066, pari a 71 aree interne sparse in tutte le regioni. Il calcolo è che per ogni milione di euro investito dal governo, attraverso le leggi di stabilità, vengano realizzati interventi per 3,7 milioni di fondi europei. E le risorse complessivamente mobilitate arriverebbero a circa 600 milioni di euro.

In questi anni si sono fatti progetti, sono state approvate delibere comunali e si sono cercati i fondi per creare servizi e modelli alternativi. Nel campo della sanità, dell’impresa, del recupero delle terre abbandonate, dell’energia. Superando i campanilismi, unendo amministrazioni e mettendo in comune i beni, per migliorare la qualità della vita in territori che contano anche meno di trecento abitanti.

Come è accaduto sulle montagne abruzzesi, nell’area interna che comprende Sangro, Aventino e Alto Vastese. Trentatré comuni e trentatré sindaci che hanno pensato insieme come migliorare lo stato dei propri territori. «Sul fronte scolastico», racconta Cristina Lella, sindaca di Torrebruna (859 abitanti in provincia di Chieti), «il problema è che essendoci pochi bambini, sono molto diffuse le pluriclassi uniche. Non solo. Guardando i risultati delle prove Invalsi, ci siamo resi conto che i nostri figli avevano raggiunto scarsi risultati in diverse materie. Abbiamo capito che bisognava puntare sul miglioramento della formazione, anche per evitare che le persone continuino a lasciare questi luoghi anche alla ricerca di scuole migliori».

Per la zona del Sangro-Aventino, tramite l’accorpamento dei comuni, si è scelto di convogliare in alcune zone le scuole elementari e in altre le medie. Per l’Alto Vastese, invece, «otto comuni hanno firmato un protocollo per chiudere quattro strutture scolastiche, e creare un solo nuovo plesso in una parte centrale del territorio, al confine con il Molise, in modo che possa essere attrattivo anche per la regione confinante».

Gli alunni coinvolti sono 300 in totale. Gli otto comuni che hanno abbandonato la logica dei campanili sono Celenza sul Trigno, Torrebruna, Carunchio, Palmoli, Tufillo, Dogliola, San Giovanni Lipioni, Castelguidone. Il progetto è già pronto, la Regione l’ha inserito nella programmazione triennale. Per la progettazione sono stati spesi 300mila euro. Ora mancano i soldi per la costruzione. «Servono circa 5,9 milioni di euro per realizzare la struttura, che sarà anche un centro civico aggregativo. Stiamo cercando di individuare fondi ministeriali e regionali, ma anche i fondi dell’Inail destinati alla costruzione di scuole sicure», dice Sella. «Una volta trovati i fondi, la realizzazione del nuovo plesso è prevista entro un paio d’anni».

La nuova struttura verrà costruita con le moderne tecniche antisismiche, in una zona come quella abruzzese interessata dai terremoti. «Non ci sarà quindi adeguamento sismico delle strutture esistenti, che è molto costoso, ma si costruirà un edificio nuovo. Questo, oltre a permetterci di mandare i ragazzi in scuole sicure, porterà anche a un risparmio economico». L’obiettivo, s’intende, è bloccare lo spopolamento: «Creare un’area di formazione di qualità, spingendo anche sull’innovazione nella didattica, per evitare che la gente vada via». Qualche vecchio politico locale, certo, ha storto il naso. «Ma questa è l’unica via per assicurare un futuro alle nostre zone», dice Sella. «Altrimenti moriremo».

In questi anni si sono fatti progetti, sono state approvate delibere comunali e si sono cercati i fondi per creare servizi e modelli produttivi alternativi. Superando i campanilismi, unendo amministrazioni e mettendo in comune i beni, per migliorare la qualità della vita in territori che contano anche meno di trecento abitanti

Un progetto simile è stato messo a punto anche in Val Maira, Piemonte, dove invece si è scelto di convogliare gli studenti di dieci Comuni in un solo polo, una ex caserma già esistente. E se le scuole sono la molla per permettere a una comunità di restare, lo sono altrettanto i servizi sanitari. Soprattutto in paesi come questi abitati in larga parte da anziani. Un ospedale o un ambulatorio in ogni comune non si può avere. Per cui, anziché aspettare che i pazienti vadano dal medico, si è pensato di mandare il medico dai pazienti, favorendo anche il monitoraggio a distanza tramite l’uso della telemedicina. In Valchiavenna, Lombardia, hanno progettato il Mountain Virtual Hospital. Attraverso televisite specialistiche, teleconsulti e telemonitoraggi domiciliari, si punta a migliorare i servizi alla popolazione. E i costi si riducono, visto che si evita di andare in ospedale.

Un progetto simile lo stanno già sperimentando su un campione di 100 pazienti diabetici nell’area interna abruzzese del Sangro. Tramite un kit tecnologico distribuito ai pazienti, l’azienda sanitaria tiene sotto controllo la misurazione della glicemia e l’assunzione di farmaci, risparmiando quindi sui costi. «La parola d’ordine è proattività», spiega Pasquale Falasca, medico epidemiologo della Asl di Lanciano che ha lavorato alla progettazione dei servizi sanitari nell’area del Basso Sangro. «Nelle aree interne deprivate dei servizi, siamo noi medici che andiamo dai cittadini: individuiamo le persone più a rischio e andiamo. L’approccio ai servizi qui deve essere su programma non su richiesta».

Non solo per gli anziani, ma anche le donne in gravidanza che vivono nelle zone più lontane dagli ospedali. Nell’area montana del Basso Sangro, ogni anno si registrano 100-150 nascite, la metà di quanto avviene invece sulla costa. E per risollevare le nascite si è pensato di facilitare la maternità offrendo maggiori servizi. Il progetto prevede la figura dell’“ostetrica di comunità”, che sarà anche affiancata da un’educatrice montessoriana in grado di insegnare alle donne come comunicare con i neonati. Il modello sono alcuni esperimenti realizzati negli Stati Uniti e in Canada, dove progetti simili hanno portato a un aumento della natalità. «Si rende più semplice la maternità, invogliando le giovani coppie ad avere figli», dice Falasca. In più, il progetto comprende una linea telefonica gestita dalle ostetriche. Con l’aggiunta di un supporto attivo. «Siamo anche noi a telefonare una volta al mese per sapere come va».

Per gli anziani invece è stata creata la figura dell’“infermiere di fragilità”. Gli anziani hanno un numero di telefono a cui rivolgersi per fare domande e comunicare eventuali problemi. L’infermiere ha un database con tutti i potenziali clienti, risponde al telefono, dà consigli per l’autocura, intervenendo lui stesso quando serve o chiedendo l’intervento del medico. In questo modo una sola persona può gestire fino a 80-100 pazienti, con un risparmio notevole sui costi.

Nelle aree interne deprivate dei servizi, siamo noi medici che andiamo dai cittadini: individuiamo le persone più a rischio e andiamo. L’approccio ai servizi qui deve essere su programma non su richiesta

Ma se gli anziani sono la gran parte della popolazione delle aree interne, per farle sopravvivere si deve puntare ad attirare i giovani. Molti dei progetti hanno proprio l’obiettivo di ripopolare i territori tramite l’innesco di nuovi processi di sviluppo. E perché no, faorendo anche il ritorno dei giovani che sono andati via. In Valtellina, per evitare che i giovani dopo la laurea lascino la vallle, hanno pensato di puntare sulla formazione di alto livello e sull’incubazione di imprese legate ai temi ambientali e forestali. A Foggia, prima provincia d’Italia per estensione di terreni agricoli, è stato creato un hub rurale.

Giuseppe Savino, 36 anni, figlio di agricoltori, dopo un periodo trascorso a Londra a studiare la chiesa pentecostale, nel 2014 ha riunito i giovani imprenditori agricoli del foggiano e ha creato “VàZapp’”. «Abbiamo cominciato a incontrarci in casa dei miei genitori per capire cosa si poteva fare di questo bene prezioso che avevamo a disposizione: la terra», racconta Giuseppe. A invogliare i ragazzi un parroco allora 93enne, don Michele de Paolis. E alla fine quel primo gruppo è cresciuto fino a contare 28 ventenni e trentenni, tra chi è sempre rimasto in Puglia e chi era partito ed è tornato. Per tornare a “zappare”, appunto.

Per prima cosa hanno cercato di mettere insieme le idee. «Nessuno ha mai ascoltato i contadini», dice Giuseppe. «Ecco perché abbiamo creato le “Contadinner”, cene tra agricoltori confinanti, che in questo modo possono conoscersi e fare rete». Così sono nate due cooperative, 30 collaborazioni e molti agricoltori hanno cominciato a scambiarsi i mezzi agricoli. «È la “filiera colta”, non corta: solo mettendosi in rete e facendo entrare l’innovazione oggi si può sopravvivere al mercato», dice Giuseppe.

L’hub, il cui quartiere generale si trova nella cascina dei Savino, fa da supporto al mondo agricolo della provincia con giornate di formazione ed eventi anche con il mondo dei potenziali acquirenti. Tanto da aver organizzato pure un “Galà dei contadini”, con agricoltori, albergatori e chef. VàZapp’ si finanzia partecipando ai bandi pubblici. E i ragazzi a cui i genitori dicevano “andatevene perché qui non c’è futuro”, invece stanno cominciando a restare o a tornare. «VàZapp’ ha creato la connessione tra due mondi: i ragazzi che non hanno mai messo mani nella terra, ma avendo viaggiato e studiato all’estero possono dare un supporto fondamentale per nuove modalità di vendita, e quelli che sono rimasti e che hanno “laureato” le loro mani nella terra, ma che non conoscono i segreti della vendita», dice Giuseppe. E il team è misto: ci sono quattro agricoltori, ma anche comunicatori, architetti e videomaker. I saperi antichi e quelli di ultima generazione. «Solo così le aree interne abbandonate si possono ripopolare».

VàZapp’ ha creato la connessione tra due mondi: quelli che non hanno mai messo mani nella terra, ma avendo viaggiato e studiato all’estero possono dare un supporto fondamentale per nuove modalità di vendita, e quelli che sono rimasti e che hanno “laureato” le loro mani nella terra, ma che non conoscono i segreti della vendita

X