In Italia ciclicamente si torna a parlare dell’eterna lotta tra due idee contrapposte: quella delle università ad accesso libero contro quella dell’università a numero chiuso. Sulla carta la linea rossa che le divide sembrerebbe sancire la differenza tra i progressisti democratici e i conservatori elitisti. Da una parte, infatti, sembrerebbero ritrovarsi i difensori della libertà, della democrazia e delle pari opportunità tra cittadini; dall’altra, al contrario, i difensori del privilegio, della classe, del censo e, più in generale, di una società piramidale e rigidamente divisa tra ricchi e poveri, sia in termini economici che di istruzione.
E proprio qui ci troviamo, oggi, a pochi giorni dall’annuncio dell’Università di Milano di aver approvato l’introduzione del numero chiuso anche nelle facoltà umanistiche dell’Università, seguita dalle proteste degli studenti e anche dalla scelta della ministra Fedeli di schierarsi contro la decisione del Senato accademico, approvata con 18 voti a favore, 11 contrari e 6 astenuti. Anche le associazioni studentesche hanno protestato, supportate da alcuni insegnanti, che si sono uniti alla protesta per difendere il diritto allo studio, ovvero uno dei pilastri su cui si basa la libertà e democraticità del nostro paese.
Eppure, nonostante queste premesse che porterebbero chiunque creda nella democrazia e nella libertà dell’individuo a parteggiare per l’accesso libero, se si osserva la questione con lucidità e senza l’ansia da tifo e la paura della complessità che sempre si accompagna a queste battaglie campali, ci si accorge che il campo è praticamente invertito. O meglio, che la difesa strenua dell’accesso libero non solo è una battaglia di retroguardia, ma è anche un’arma a doppio taglio che fa molto più comodo alle classi dominanti che a quelle subalterne.
L’accesso libero è uno specchietto per le allodole dietro a cui si cela il modo migliore per tenere la società legata ai modelli classisti, razzisti, sessisti e elitaristi. Ed è a tutto vantaggio delle classi dominanti. E il numero chiuso, al contrario e forse un po’ controintuitivamente, garantisce la libertà di autorealizzarsi e di autodeterminarsi a tutti secondo le proprie possibilità. Alla base della difesa strenua di una cosa come l’accesso libero, che in realtà significa il suo contrario, ci sono degli errori di interpretazione.
L’accesso libero è uno specchietto per le allodole dietro a cui si cela il modo migliore per tenere la società legata ai modelli classisti, razzisti, sessisti e elitaristi
Il primo è il legare la possibilità alla sua realizzazione, il che porta a pensare che la concessione a chiunque di una possibilità di realizzazione equivalga a concedere a tutti la realizzazione. Ma non è così. Sarebbe come dire che dare la possibilità a tutti di comprare un biglietto della lotteria equivalesse a dare a tutti la libertà di diventare ricchi, mentre non c’è gesto meno libero che quello di affidare i propri sogni di realizzazione a una lotteria.
Il secondo errore di interpretazione è confondere l’assenza di regola con la libertà perfetta. La libertà infatti è un concetto parecchio bislacco e, da un certo punto di vista decisamente paradossale. Quando essa esiste nella sua forma più pura e vasta, senza limitazioni di sorta, diventa quasi sempre la negazione di se stessa, perdendo quel valore positivo quasi assoluto che la nostra società le ha assegnato da sempre. Per esistere è avere un senso, la libertà deve essere relativa, assoggettata a delle regole. E che queste siano espressione di un patto sociale, come nelle società socialdemocratiche, o che siano semplicemente imposte dalla volontà e dalla morale del singolo individuo, come teorizzavano i movimenti anarchici tra Ottocento e primo Novecento, poco importa. Quello che importa è sapere che, se assunta in purezza, la libertà uccide.
Il terzo errore di interpretazione è l’illudersi di poter eliminare gli elementi classisti, razzisti, sessisti ed elitisti della nostra società soltanto concedendo anche ai figli delle classi subalterne di studiare. Anche qui, non è così. Affollare le università pubbliche significa depotenziarle e spostare il filtro dell’elitarismo oltre l’università.
Fare della libertà e delle pari opportunità tra cittadini un semplice fattore numerico è una cosa controproducente. Facciamo un esempio preso dalla politica: dire che tutti hanno diritto di diventare Primo Ministro non è come dire che lo devono diventare tutti. Una società giusta non è quella in cui tutti diventano Primi Ministri, ma quella in cui alla nascita, quale sia il luogo, la famiglia, il colore della pelle, la lingua parlata dai propri nonni e la dimensione della libreria della propria famiglia, tutti possono ambire ad avere un ruolo importante nella società. E questo punto non si ottiene ampliando il numero di vacche da stipare in una stalla che, solo occasionalmente, battezziamo con il nome di aula. Fare lezione in 500 non è libertà di studio, è perdere i propri anni di formazione parcheggiati in un posto che non ci forma e che, se ci forma, richiede una lotta sovrumana fatta di sgomitate e di sgambetti tra pari per arrivare in fondo.
L’accesso libero è esattamente come la promessa di un paradiso dove gli ultimi saranno i primi.
Una università che non seleziona i propri studenti è una università che quegli studenti non li prepara, è un’università che non ha nemmeno l’interesse a prepararli. E non c’entra niente né con il diritto alla autodeterminazione degli individui (forse l’unico vero diritto per cui vale la pena lottare, perché se li porta dietro tutti nella giusta dose), né con il tentativo di migliorare le sorti del nostro paese.
L’accesso libero è esattamente come la promessa di un paradiso dove gli ultimi saranno i primi. Perché la selezione alla fine la si fa lo stesso, soltanto non si fa in università, ma dopo, nelle stanzette di selezione del personale, nei master da migliaia di euro che solo in pochissimi si possono permettere, negli anni in cui, se non hai una famiglia alle spalle o una casa di proprietà non ti puoi permettere di lavorare sotto costo. Sono queste le direttive su cui si lotta per il diritto all’autodeterminazione dei cittadini. Non sull’accesso o meno a una aula scolastica stipata come stalle di polli da strozzare.
L’università deve esser severa, deve essere difficile, deve essere selettiva. E non per tenere fuori i figli degli operai e far passare quelli dei dirigenti. Proprio al contrario: perché deve misurare la bravura dei cittadini sulla base di chi sopravvive a quella severità, a quella difficoltà, a quella selettività. Per questo la soluzione non è organizzare un test di ingresso e trasformare l’università in un gioco a quiz televisivo del primo pomeriggio.
Perché allora non fare un numero chiuso poroso? Perché non permettere a chiunque di iscriversi al primo anno di qualsiasi cosa e poi, dopo averli fatti passare per i dodici mesi più infernali della loro vita, valutare chi è restato in piedi. Scommettiamo che su mille studenti che si iscrivono, alla fine di quell’anno ne rimarrebbero si e no un centinaio? E tra quei cento ci sarebbe di sicuro una figlia di un immigrato, un nipote di un panettiere e pure uno dei figli di un ricco industriale. Tutti e tre bravi, dotati, capaci, brillanti. Alla fine è l’unica cosa che conta.