Non succede spesso in Italia che una tornata elettorale si concluda con risultati tanto netti da decretare in modo incontrovertibile la sconfitta di una parte politica e la vittoria di un’altra. C’è sempre un dato marginale a cui appigliarsi, un ragionamento, un “però” a cui appendere un’altra visione dei dati. Persino nel 2016, con Roma e Torino conquistate dal M5S, la sinistra trovò il modo di arrampicarsi sugli specchi sostenendo che il saldo complessivo dei Comuni alle urne dava comunque indicazioni in suo favore. Stavolta no. Stavolta il giudizio degli elettori è tagliato col coltello e non consente equilibrismi: il Pd perde in tutte le sue molteplici versioni. Perde il Pd vecchio stile di Genova; perde il Pd nuovo, renziano, dell’Aquila; perde il Pd “storico” di Sesto San Giovanni; perde il Pd del Sud e quello del Nord, e non c’è un numero, un sindaco, una situazione locale che offra riparo alla sensazione di un collettivo atto di ostilità dell’elettorato, che travalica di molto i soliti problemi delle amministrative: la scelta di un candidato sbagliato, liste fragili, errori di precedenti gestioni, il peso di disavventure nazionali, le banche, gli scandali, la crisi.
La vittoria del Centrodestra è plateale e incoraggia un’ambizione che sembrava fino a pochi mesi fa sepolta, cioè la tentazione di giocarsi le prossime politiche per vincere e non solo per portare in Parlamento un numero di deputati sufficiente a puntellare una stagione di larghe intese. La coalizione Fi-Lega-Fdi prevale ovunque tranne che – per paradosso – nella roccaforte a trazione leghista di Padova, dove i pasticci del sindaco-sceriffo uscente Massimo Bitonci conducono a un’inattesa vittoria l’imprenditore Sergio Giordani, sostenuto dalla sinistra ma con un curriculum “civico” che gli ha consentito di fare alleanze con spezzoni della destra (compresi i due ex-assessori che fecero cadere Bitonci). Difficile dire se il risultato sia stato influenzato dall’operazione-simpatia condotta verso l’elettorato grillino. In ogni caso i numeri stanno lì, e inghiottono all’improvviso l’illusione – a lungo coltivata dal Pd di Renzi – che il campo del centrodestra fosse vuoto, facilmente contendibile se non liberamente “razziabile”.
Stavolta il giudizio degli elettori è tagliato col coltello e non consente equilibrismi: il Pd perde in tutte le sue molteplici versioni. Attribuire per intero a Matteo Renzi la Caporetto del 25 giugno sarebbe fuorviante. Si ha la sensazione che i candidati del Pd siano stati affondati da un sentimento di insofferenza e di antipatia più largo e più profondo
Tutta l’ultima stagione politica italiana è stata fortemente condizionata da questa illusione e dall’idea che il nuovo bipolarismo si giocasse sullo scontro Pd-Cinque Stelle, con il centrodestra nella posizione di comprimario e di “donatore di sangue”. La stessa figura di Matteo Renzi è approdata allo status di leader cavalcando la suggestione di un possibile Partito della Nazione, capace di coinvolgere e mischiare insieme elettorati fino a ieri ostili in nome della diga contro i barbari. Gli strappi non indifferenti dell’ex premier sul terreno dell’economia, del lavoro, dell’immigrazione, della sicurezza, sono tutti legati a questa strategia, così come l’abbandono in autostrada dei dinosauri della “Ditta”, ritenuti ostacoli al travaso di voti. Bene, l’operazione è fallita. Il momento magico della mobilità e della grande migrazione elettorale c’è stato – le Europee del 2014 – ma si è chiuso lì. Da allora non si è verificata una sola chiamata alle urne che abbia sostenuto questa suggestione, ed è inutile chiedersi se l’occasione sia stata sprecata per insufficienza del capo (probabile) o per il rapido mutare del contesto. Di certo non è ripetibile.
Ma attribuire per intero a Matteo Renzi la Caporetto del 25 giugno sarebbe fuorviante. Oltre le sue responsabilità generali – il leader di un partito è sempre in qualche modo responsabile dei risultati elettorali – si ha la sensazione che i candidati del Pd siano stati affondati da un sentimento di insofferenza e di antipatia più largo e più profondo, che l’istinto di gran parte dell’elettorato sia diventato quello di punire i Democratici in genere scegliendo comunque i loro avversari: il “No” quando i Democratici indicano il Sì, il Cinque Stelle quando c’è il Cinque Stelle, la destra quando c’è la destra.
«Le amministrative sono un’altra cosa rispetto alle politiche», ha scritto su Fb Renzi nel suo primo commento a caldo. Chissà se ci crede davvero o se è solo un modo per esorcizzare il fantasma he dalle ultime elezioni francesi aleggia sui partiti tradizionali del socialismo europeo: un destino alla Benoit Hamon, la repentina marginalizzazione dopo un secolo di protagonismo assoluto, il crollo improvviso, apparentemente senza un perché. Anche quella francese era una Ditta forte ed estremamente radicata nell’opinione pubblica (parente stretta, tra l’altro, della sinistra italiana per relazioni storiche e linee d’azione) e anche quella ha giocato tutte le sue carte sul voto contro gli “impresentabili” del Fn, scommettendo sul classico “o noi o loro”, salvo poi venire travolta da un treno che proveniva da tutt’altra direzione e che non aveva minimamente considerato. A Parigi l’ospite inatteso è stato il nuovo En Marche! del giovanissimo Emmanuel Macron; qui da noi, dove le novità sono più rare, potrebbe essere il solito centrodestra del solitissimo Silvio Berlusconi.