Il bastone. La storia comincia così: Vigata, specie di El Dorado dell’editoria, è afflitta da “quei cornuti della ficzion”. L’immaginaria città siciliana è addobbata a set per una soap svedese. Mentre il rapace Domenico Augello detto ‘Mimì’ mette il pesce nelle cavità di una sontuosa attrice del Nord, Montalbano, l’arcinoto commissario, pensa al pesce del Mar Baltico, “ci nn’erano purpiteddi, come quelli che gli faciva mangiare Enzo, nel Mar Baltico?”. Dall’impresa del fedifrago Augello, si sdoppia la trama: da un lato Salvo indaga su un antico fratricidio, dall’altro risolve l’episodio di bullismo che è all’origine di una pistolettata nella scuola media del rione. La cosa più gustosa, piuttosto, è che Montalbano, tra uno sfincione e l’altro, fa il suo ingresso nell’era digitale, ha un tu-per-tu, addirittura, con Anonymous, vascello corsaro nell’oceano internettiano. Il resto ha il sapore di un arancino nocivo e del libro già masticato mille volte, d’altronde il Dottor Watson di Montalbano è Catarella, la morale pare stilarla proprio lui, l’agente tonto, quell’incrocio bizzoso tra Sancho Panza e Mr. Bean: “Com’era possibili che l’era della comunicazioni globale […] che questo spazio immenso avissi provocato ’na moltitudini di solitudini, ’n’infinità di solitudini ’n comunicazioni tra di loro, sì, ma sempre in assoluta solitudini?”. Pur pronunciata in un siciliano didascalico, che pare la cotoletta alla milanese mangiata a Bucarest – ma che ha il devoto placet di Salvatore Silvano Nigro, estensore della Trama, secondo cui gli internauti di oggi hanno “lo slancio fiducioso di nuovi argonauti” – una ovvietà resta graniticamente tale. Montalbano, che di Internet ha la stessa idea di una zia centenaria (“la riti globale servi a mittiri ’n connessioni a migliara di migliara di pirsone attraverso il computer, ma la riti, allo stesso modo del mari, se non l’acconosci bono, può fariti pigliari ’na rotta sbagliata, sbattirti cotro un basso fondali, macari ’ntrappolariti”), ormai, è l’eroe dei pensionati, i suoi romanzi van bene per allietare gli animi nelle case di riposo, per sollazzare chi è afflitto da andropausa. Per carità, Andrea Camilleri, che ha spremuto Salvo come un limone – e il limoncino non sempre viene doc – ormai non li scrive neanche più i romanzi, lo dice lui (“questo libro… è stato il primo non scritto, ma dettato”), detta pensando alla fiction Rai, come una specie di Omero del ‘giallo’ in granita sicula. “M’ascusassi, dottori, m’ascusassi, ma la pacienza persi”, tartaglia Catarella al suo commissario. La stessa frase la volgiamo a Camilleri. Uno shock benefico, per gli asfissiati lettori di Montalbano, sarebbe, per lo meno, mandare Luca Zingaretti nell’aldilà cinematografico. Sostituitelo. Il suo ceffo sbuca ovunque, tra le righe del libro, tra i cespugli dei paragrafi e l’aiuola dei capoversi, rendendo francamente fastidiosa la lettura. Effetto sinistro della fama pubblica, letale per la buona letteratura.
Andrea Camilleri, La rete di protezione, Sellerio, pp.304, euro 14,00
La carota. Piccolo incipit. Quando il libro uscì, l’anno scorso, mi sono incazzato. Flavio Santi, prodigio poetico (leggetevi almeno Mappe del genere umano), romanziere estremo (leggete Aspetta primavera, Lucky, che nel 2011 entrò tra i discepoli del Premio Strega pur supportato dal piccolo editore Socrates), traduttore eccelso (ha reso in italiano di tutto, da Herman Melville a Wilbur Smith, da 007 a Melmoth l’errante), accademico eccentrico, si era dato al ‘genere’. Peccato, mi sono detto – e ho scritto. Uno che poteva scrivere il nuovo Doctor Faustus s’è messo a scimmiottare Simenon. Flavio s’impelagò di rabbia. “Sui miei modelli sono stati chiaro fin da subito: io cito Piero Chiara come riferimento, mica Thomas Mann!”, precisava lui, in una lettera furibonda. “Per tua informazione non diventerò ricco, né ho mai pensato di farlo, non m’interessa, m’interessa però avere tanti lettori che mi leggano, a cui dare qualcosa. Mi accontento di poco”, concludeva, donandomi l’epiteto “mio miope amico”. Ennesimo amico perso sulla via della presunzione, peccato. Non cambio idea su Flavio Santi – un genio narrativo nella sala d’attesa del capolavoro – né sul suo romanzo, La primavera tarda ad arrivare. Un ottimo ‘giallo’. Con un protagonista, l’ispettore Drago Furlan, ben sbozzato – guida la moto Guzzi, pare Hemingway e tifa Udinese – e una vicenda torbida – l’eccidio di Avasinis – che rigurgita dagli inferi della Seconda guerra. Nel romanzo, presentato come “La prima indagine dell’ispettore Furlan” – in effetti, è appena uscita la seconda indagine, L’estate non perdona – balugina Colloredo di Montalbano, che non ha niente a che vedere con Camilleri, ma è il micro Comune friulano dove passa parte della vicenda – e dove Ippolito Nievo ha scritto Le confessioni d’un italiano. Che a me i ‘gialli’ facciano venire l’itterizia è una nota inutile. Il dato di fatto è che la patria del ‘genere’ è cambiata: prima abitava in Sicilia, ora dimora in Friuli.
Flavio Santi, La primavera tarda ad arrivare, Mondadori, pp.308, euro 18,50