Quando Bianca mi ha annunciato che si sarebbe sposata con Ciccio, cioè Francesco, cioè storico e devoto fidanzato dei sogni con cui conviveva già da 5 anni, eravamo a cena da me. Che detta così pare che io avessi cucinato. Naturalmente, invece, venire a cena da me significa ordinare del sushi a domicilio e consumarlo sedute sul divano angolare, che è e rimane il complemento d’arredo più prezioso di tutto il mio bucolocale di 40 metri quadri a Milano. Era gennaio, avevo i capelli sporchi e dei collant bucati sull’alluce destro. L’unghia del suddetto alluce riportava anche tracce di una vecchia pedicure, una crosta di smalto rosso non uniforme, che era lì a ricordarmi – insieme alla coltivazione pilifera sulle gambe – da quanto tempo il mio corpo non si mostrasse allo sguardo di un pene sapiens. Insomma, quando Bianca mi ha annunciato che si sarebbe sposata con Ciccio, io ero la merda fatta donna. Lo schifo. Il degrado. L’abbandono. Lo spettro di me stessa. E la notizia, al netto della felicità per lei, di sicuro non mi aiutò a stare meglio. Quando hai 30 anni e sei single è così: ogni volta che una tua amica si sposa – anche se è ovvio che si sposerà, perché è fidanzata e felice (vivaddio), perché abbiamo l’età, perché quello matrimoniale è un virus incurabile che, uno per volta, si porta via tutti i tuoi amici, traghettandoli in una no-single-land in cui inizieranno a non uscire più per “far serata” bensì a dedicarsi a cene pettinate e costose con altre coppie (questo prima che la 17 risacca dell’amor borghese ce li restituisca devastati da cause di divorzio, mantenimenti, figli part time e anime tenute malamente insieme da punti di sutura occasionali) – ecco, ogni volta che succede, per noi che restiamo da quest’altra parte, è un piccolo shock. Ci riprendiamo in fretta, sia chiaro, ma il colpo lo accusiamo. E non possiamo fare a meno di misurare, seppur approssimativamente, quanto distanti siamo dal medesimo traguardo sociale ed esistenziale, prima di rinsavire e di pensare che no, noi single, noi donne forti, noi post femministe convinte ed emancipate, noi aborriamo queste convenzioni sociali ancestrali e stantie. Noi non abbiamo bisogno di un uomo che ci regali un anello di Tiffany, tutto tempestato di diamantini che incoronano un solitario da milioni di miliardi di carati. No. No, affatto. Quanto più vicina è, per noi, l’amica nubenda, tanto più è forte il colpo che accusiamo. E Bianca, per me, era la più vicina di tutte. Ci conosciamo dai tempi delle prime mestruazioni, abbiamo frequentato lo stesso liceo, ci siamo trasferite alla stessa età per studiare e per lavorare, abbiamo condiviso le stesse vacanze, e gli stessi amici, e gli stessi festini, ma mai gli stessi fidanzati. Abbiamo comprato insieme il primo perizoma da Intimissimi e ci siamo ubriacate insieme le prime volte con le deprecabilissime vodke alla frutta (Keglevich è senza dubbio responsabile dell’iniziazione all’alcolismo della nostra generazione).
Prima di fidanzarsi con Ciccio, Bianca era anche la spalla perfetta per imbroccare ragazzi. Ovunque andassimo, era impossibile non fossimo tampinate da qualcuno. Ai nostri tempi, il rimorchio femminile era questo, era passivo. Consisteva nell’uscire di casa e lasciare che i ragazzi attaccassero bottone. Non c’era dubbio, ai tempi, su chi dovesse rimorchiare chi, su chi avesse l’onere di fare la prima mossa. E Bianca, tonica al limite dell’illegalità, con una foltissima chioma mediterranea che le scendeva sulle spalle tornite, esteticamente notevolissima, era ideale per attirarli, come api al miele. Poi, da copione, intervenivo io, che li intrattenevo dialetticamente. Lei era quella 18 bella, io quella intelligente. E sia chiaro: il fatto che fosse così palesemente più figa di me, non è che mi sia stato sempre indifferente, ma sopportavo la sua ignobile perfezione fisica grazie alla presunzione di essere più brillante di lei. E lei sopportava il sospetto che fossi sfacciatamente più brillante di lei grazie alla consapevolezza della sua taglia 40. Un giorno ci siamo accorte di essere cresciute, di essere entrambe belle e intelligenti, di essere diventate donne e di volerci bene in quel modo profondo e autentico in cui le donne sanno volersene, quando superano indenni il campo minato dell’adolescenza. Non ci siamo mai definite “migliori amiche” il che forse ci ha salvate da tutti quei tranelli puberali dell’amicizia per la pelle, quegli assurdi giuramenti non detti di eterna fedeltà ed esclusiva (le “amiche del cuore” sono peggiori dei mariti) che poi finiscono in massacri sanguinolenti di competizione e rivalità ovarica. E ciò ci ha rese – nel lungo periodo – ottime amiche, per la vita. Insomma, Bianca per me è praticamente una sorella. Meglio di una sorella. Perché la sorella ti capita, l’amica la scegli e la confermi, anno dopo anno.
Estratto da Stella Pulpo, Fai uno squillo quando arrivi, Rizzoli, euro 19,00