Salvare i figli non è sempre possibile, ma si può tentare. Come? Difendendoli, direte voi. Errore. Bisogna insegnar loro a combattere. Wonder Woman, in questi giorni nelle sale, inizia con Antiope, generale delle Amazzoni e zia di Diana, che convince Ippolita, regina delle Amazzoni e madre di Diana, ad addestrare sua figlia alla battaglia: “è la cosa migliore che tu possa fare per lei”, le dice. Diana è Wonder Woman, nata per sconfiggere Ares, il dio della guerra, ma non lo sa: lo scoprirà da sola. Sua madre capisce presto, con grande dolore, che escluderla dal suo destino, irrimediabilmente legato a quello del mondo e dei suoi mortali, è impossibile: le tocca mandarcela incontro, da guerriera.
Noi pensiamo che i guerrieri possano solo aggredire, espropriare, avanzare: invece, possono anche difendere. Noi pensiamo che la difesa sia un’azione passiva, scongiurante, che non richiede preparazione, ma solo capacità di suscitare misericordia, pietà. Wonder Woman, diversamente dalle cavolate che scrivono i giornali per ricavarne titoli accattivanti, non c’entra con il femminismo, non c’entra con “siamo le eroine delle storie, possiamo prendere a calci chi vogliamo e siamo uguali agli uomini” (Corriere della Sera), bensì con il ribaltamento e l’allargamento del senso del difendersi, coniugato al modo e al tempo del coraggio. Un senso che ci tocca affrontare, per munircene, ora che il terrorismo sta trasformandosi in un agghiacciante corpo a corpo. Prepararsi a quel corpo a corpo non significa iscriversi a una scuola di arti marziali (che comunque non è mai una cattiva idea), circolare armati o delirare autoproclamandosi giustizieri del male e della corruzione come Robert De Niro in Taxi Driver. Significa smetterla di pensarsi inermi e cominciare a sentirsi responsabili della propria invulnerabilità. Accoltellando i passanti sul London Bridge, i terroristi islamici hanno agito consapevoli del fatto che i cittadini occidentali non sono allenati all’autodifesa, che il riflesso istintivo e violento della sopravvivenza è stato alienato in favore di una sicurezza condivisa, assicurata da organi competenti, cui è stato affidato il monopolio della reazione. Dopo averci falcidiato perché beviamo birra, indossiamo la minigonna, scopiamo, mandiamo gli adolescenti ai concerti, ora prendono a colpirci perché passeggiamo come cittadini liberi e non come soldati in guerra. Perché non viviamo in allerta, perché non pensiamo che in ogni istante della nostra giornata, in un posto qualsiasi, potremmo essere accoltellati da uno sconosciuto, perché misuriamo il nostro grado di civiltà dalla capacità che abbiamo di andare incontro agli sconosciuti e di fidarci di loro e, soprattutto, perché ci illudiamo che a difenderci ci sarà sempre chi ha il mandato per farlo. L’irrisione di tutto questo, che compone uno dei pilastri della nostra idea di mondo, sta nelle cinture di esplosivo finte che gli attentatori di Londra hanno indossato per spaventare le persone e convincerle di essere spacciate.
A Londra è accaduto qualcosa di imprevedibile: le persone hanno reagito. Gli avventori dei bar di Londra hanno lanciato bottiglie e sedie contro i tre terroristi, un tassista ha cercato di investirne uno, un ristoratore ha distribuito coltelli ai propri clienti
“In ogni conflitto le manovre regolari portano allo scontro, e quelle imprevedibili alla vittoria” è scritto ne L’arte della guerra, il trattato di strategia militare attribuito al generale Sunzi, che visse in Cina tra il VI e il V secolo avanti Cristo. Non vinceremo questa guerra immolandoci in corpo a corpo con i terroristi, né arruolandoci in un esercito. Non c’è ancora una vittoria di cui possiamo ragionevolmente parlare. Ma c’è un dato nuovo che non possiamo ignorare e sul quale dobbiamo cominciare a costruire, per pensare una nuova investitura collettiva. A Londra è accaduto qualcosa di imprevedibile: le persone hanno reagito. La manovra inaspettata di cui i terroristi ci credono incapaci, perché storditi e infiacchiti da irenismo e stato di diritto, è il coraggio, quello che loro confondono con la disperazione e che noi, invece, abbiamo nella calce della storia del farsi nazione dei nostri popoli e che ci siamo pure permessi il lusso di archiviare come romantico patriottismo, ormai non più attuabile. Gli avventori dei bar di Londra hanno lanciato bottiglie e sedie contro i tre terroristi, un tassista ha cercato di investirne uno, un ristoratore ha distribuito coltelli ai propri clienti. Antonio Polito, sul Corriere della Sera del 5 giugno, ha scritto che si è trattato della manifestazione del fatto che “anche il coraggio, oltre alla paura, è un sentimento naturale dell’uomo quando è costretto a difendersi ed anche il coraggio deve far parte del nostro stile di vita”. Scotland Yard ha raccomandato i cittadini inglesi di correre, nascondersi e chiedere aiuto (Run, Hide, Tell), in caso di nuovi attacchi. Giusto. A legare queste azioni, però, insieme alla fiducia nell’intervento “dei nostri”, dev’esserci la consapevolezza che la propria salvezza può dipendere anche da noi stessi. Nel suo editoriale, Polito ricordava che a Tel Aviv i genitori insegnano ai propri figli che se c’è un attentato, non devono pensare di essere già morti, ma che possono ancora difendersi, facendo cose giuste e sbagliate. L’attrice che interpreta Wonder Woman è Gal Gadot, israeliana: prima di intraprendere la sua carriera di attrice, ha fatto parte dele Forze di Difesa del suo paese ed è diventata istruttrice di combattimento. È una coincidenza piuttosto evocativa.
Non siamo liberi soltanto perché abbiamo scelto di assoggettare la nostra brutalità alla legge: siamo liberi anche perché sappiamo che tra la vita e la legge esiste uno scarto e che spesso quello scarto può coincidere con la responsabilità della scelta. “Vogliamo sentirci responsabili, stare insieme, scrollarci di dosso la rassegnazione”, ha detto suor Maria Grazia Maglio, settantasette anni a La Stampa, spiegando le ragioni che l’hanno portata a organizzare il primo corso di autodifesa per donne, indirizzato anche alle suore. Non potendo contare sull’assistenza costante della polizia, delle forze dell’ordine o della politica, suor Maria Grazia ha preferito fare da sé.
Per ripensare la nostra resistenza non c’è (ancora?) bisogno di riabilitare la violenza, interrompere l’embargo contro la vendetta e la rappresaglia, candidarsi a guidare un gruppo eversivo: è sufficiente non esiliare dalla nostra coscienza l’idea che la nostra vita e quella degli altri possano dipendere anche dal nostro coraggio, dall’agire concreto, dal sangue freddo.Il concerto che Ariana Grande ha tenuto all’OLP Trafford Cricket Ground, pochi giorni dopo la strage di Manchester, non era una risposta al terrorismo: era solo un concerto. Giulia Pompili ha scritto sul Foglio che quella riposta si trova sugli aerei diretti verso Raqqa. Giusto. Forse, però, dovremmo cominciare a pensare che una piccola parte di quella risposta si trova anche nei londinesi che hanno lanciato bottiglie agli attentatori, perché non è vero che il nostro stile di vita non è cambiato e non cambierà, ma è vero che dobbiamo cominciare a difenderlo uno a uno, tutti, con o senza divisa addosso. Parte di quella risposta è anche “non dobbiamo per forza subire tutto”, come scrisse Magda Szabò, scrittrice ungherese, nel suo meraviglioso Per Elisa.
Luisa Muraro, in un libro molto breve e molto prezioso di qualche anno fa, Dio è violent*, scrisse che era arrivato il momento di smetterla di dirci tutti uguali, perché quell’assunzione distruggeva alla radice la possibilità di cambiare le cose riappropriandosi della forza politica. Lei si riferiva alla reazione contro governi che avevano tradito la sostanza stessa del patto sociale, ma proponeva un passaggio di valenza universale: riprendere parte di quella forza e della licenza di usarla che, per contratto, abbiamo alienato. Dovremo tradire quel nostro progresso per tutelarlo. “Contro i nazisti ci vogliono le mazze da baseball”, dice Woody Allen in Manhattan all’intellettualone da salotto che, raccontando l’ennesima marcia di neonazisti in città, propone di fermarli con una petizione. Serve reagire, non firmare petizioni.