Il caso Totti insegna: abbiamo una disperata voglia di fedeltà e non sappiamo confessarcelo

Ci sembra quasi una macchietta un giocatore che resta una vita con la propria squadra. Ma il caso Totti non è campanilismo. È un esempio di fedeltà, di cui non riusciamo a confessarci il disperato bisogno che abbiamo

”Alla festa di addio di Totti, quella che si è divertita di più è la moglie Ilary”: La Repubblica ha scelto di intitolare così un video dove si vede Ilary Blasi ballare Maracaibo con un amico (che naturalmente indossa la maglia di suo marito), per non più di cinque secondi, dopodiché tifosi che cantano “c’è solo un capitano uno” a spron battuto, dappertutto. Dentro quel titolo assurdo, cafone e malizioso, si esplicita perfettamente l’esorcismo di un dettaglio molto poco discusso del fin troppo discusso addio di Totti al calcio. Quel dettaglio è il bisogno che abbiamo di vedere praticata la fedeltà.

Non è interessante solo capire se venticinque anni consacrati alla stessa squadra (non una qualunque: la Roma, che è riottosa, scaricabarile, incapace tanto di ammettere quanto di distinguere colpa e responsabilità), siano la testimonianza di una fede incrollabile oppure di un’ incrollabile pigrizia. I giornali hanno preso il righello e hanno scisso una vicenda tanto toccante in questi due poli distinti e riconoscibili: polarizzare a scapito del senso complesso delle cose è un’arte tutta italiana, che dopo aver distrutto la politica si avvia a falcidiare le emozioni. Non è interessante solo capire se la parabola di Totti conferma la catabasi romana o le aggiunge qualcosa.

La fedeltà non è un’idrovora cattiva delle infinite chance della vita: per questo era così bello o così insopportabile stare a guardare il suo addio al calcio

“Non vincerò mai nulla, ma perché andare a Milano, Madrid, Manchester o Barcellona dove fa freddo, devo imparà l’inglese, si mangia male, sarei solo uno dei tanti, quando posso restare qui co’ l’amici, la famiglia. Così si fa il re di Roma. Così si perpetuano il dramma cosmicomico, la farsa, il senso ultimo di questa città”, ha scritto Andrea Minuz sul Foglio. La fine della carriera di Totti è la madre di tutte le metafore da una settimana a questa parte: nessuna di esse spiega davvero il fastidio o la commozione che, mentre andava in scena, ha scatenato. Le metafore, dopotutto, non servono a cogliere il senso delle cose, ma ad allargarlo, in modo più o meno improprio. Un ragazzone ultraquarantenne prende il microfono a bordo campo, in uno stadio stracolmo di persone, dice che è ora di diventare adulto, che non è più adeguato per onorare il vincolo a cui ha consacrato la sua vita ed è questo che spezza il cuore a mezza Italia: non è il vincolo (cioè, la squadra, il calcio) a essere insopportabile a Totti, ma Totti a essere insopportabile (perché non più adeguato) al vincolo. Escono le lacrime allo stesso paese che, come tutti gli altri paesi del mondo, è creativamente rassegnato all’idea che la fedeltà s’estingue non appena passa dalle parole ai fatti, che è una chimera, una sovrastruttura, una subdola forma di controllo sociale, un’abitudine controintuiva e innaturale.

Con quelle lacrime, però, si confuta proprio questa idea, sulla quale abbiamo costruito il pensiero sulla scelta e quello sulla libertà. Incarnata in Totti, la fedeltà non è un’idrovora cattiva delle infinite chance della vita: per questo era così bello o così insopportabile stare a guardare il suo addio al calcio. Per questo abbiamo investito l’emozione conseguente di significati che gli gravitassero intorno, in modo da non affrontarla mai davvero.

Non sia mai ammettere che, stante che poter fare tutto, amare tutto, concedersi a tutto, elevare la poligamia a condotta di vita è fichissimo, pure rimanere appiccicati alla stessa città (anche se è zozza), alla stessa ragazza (anche se è stronza), alla stessa squadra (anche se è la Roma), allo stesso taglio di capelli (anche se ci sfigura la faccia) non è male.

Qualunque cosa, pur di non ammettere che sogniamo qualcuno che ci ami come Totti ha amato la Roma e che vorremmo poter essere capaci, senza troppi sforzi, di ricambiarlo

Non sia mai rintracciare, nell’amore disperato delle persone per Totti, anche la gratitudine per aver smentito centinaia di libri, articoli, romanzi, film, talk show che da decenni danno per spacciata non solo la fedeltà, ma pure la capacità umana di onorarla, se non a costo di sacrifici indicibili e, soprattutto, insensati. La gratitudine per aver dimostrato che la fedeltà può innestare le scelte di un uomo senza lo zampino dell’imperativo categorico e in maniera del tutto spontanea e innaturale.

Meglio allestire il patetico teatrino di un ragazzo che non cambia maglia perché è un eroe del campanilismo romano ed è per questo che la città – che dal suo narcisismo giaculatorio si è fatta fottere – lo ama. Meglio spezzare tutta la tensione patetica dei tifosi che continuano a postare foto, poesie, lacrime, reverie un po’ imbarazzanti, insinuando che la moje der capitano non vedeva l’ora di smetterla di recitare dentro questa fiction di amori perpetui, tant’è che ora si dà alla pazza gioia ballando Maracaibo tra le braccia un altro. Quanto ci fa stare meglio pensare che la famiglia Totti si è sbarazzata del fardello della purezza e che non vede l’ora di tradire o pensare di farlo, come tutte le altre.

Qualunque cosa, pur di non ammettere che sogniamo qualcuno che ci ami come Totti ha amato la Roma e che vorremmo poter essere capaci, senza troppi sforzi, di ricambiarlo. Tutto, pur di non fare un passo indietro su decenni di posta del cuore per zitelle stronze e confessare la voglia pazza di fedeltà che abbiamo.

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