Il bastone. Avete presente un trapezista? Mentre ammirate le sue acrobazie il tizio, all’improvviso, afferra uno del pubblico, per i capelli. Lo mette a schiena sotto, in mezzo al palco. I trapezi si trasformano in coltelli e il trapezista comincia a segare il povero spettatore, squartandolo. La meraviglia si disfa così in orrore. Ecco, fate conto che Stefano Benni sia quel trapezista e Prendiluna il primo esempio di fantasy cinico, un libro che ci colma di fantomatica tristezza. La trama è chiara come il sole: Prendiluna, che un tempo “era una moretta spettinata” con un bel culo “oggetto di commenti e attenzioni”, ora è una vecchia “ingobbita e inargentata” degna di essere parcheggiata in una casa di riposo. Invece, “cardiopatica e avventurosa”, la tipa è incaricata da “Ariel, il gatto bianco figlio di Iside, capostipite dei Diecimici” di consegnare i suddetti dieci mici a “dieci Folli, dieci Giusti” in otto giorni, “per salvare il mondo”. Da qui si dilata una trama fatta, per lo più, di sketch scollegati tra loro, che disorientano il lettore a colpi – bassi – di psichedelia retorica, più che un romanzo questo è un tendone da circo, una sfilza di puntate di Zelig che vi obbligano a poppare con gli stuzzicadenti nelle pupille. Colpisce, piuttosto, l’abbuffata sessomane: c’è la “Bella Benzinara che scopavamo nel camion così forte che quello partì in discesa e finì contro la casa del padre”, c’è il dottore che si fa la “dottoressa rossocrinita”, “so che vi ingroppate in Radiologia tra lastre di addomi e teschi”, c’è il regista di “film di Sesso Depresso”, rigorosamente con pornodivi che “hanno uccelli modesti, difficoltà di erezione e si addormentano a metà coito, facendo sentire gli spettatori degli stalloni”. La più simpatica, però, è “la timida e tenera Clotilde”, antica allieva di Prendiluna, la prima della classe, “studiosa ma non secchiona”, che il tempo ha metamorfizzato in Clo, “una stragnocca, sommariamente rivestita da una canottiera trasparente e da un pantaloncino di jeans”, che ora fa la pornostar, cura il blog Trafiggimi col tuo dardo. Il romanzo, comicamente sinistro, pare shakerare l’Orlando furioso con Topo Galileo, dimenticato film scritto da Benni nel 1987 con Beppe Grillo protagonista. Il libro – ma chi se lo legge? forse i sopravvissuti al Sessantotto che hanno sostituito il sampietrino con la bottiglia di champagne – dopo una banale critica al consumismo sfrenato – “incolonnati all’altare della Merce come fedeli davanti alla Comunione” – smutanda perfino Dio. Il coprotagonista Dolcino – ovvio omaggio al predicatore mandato al rogo nel XIV secolo – è al cospetto di un Onnipotente indispettito (“Tanto dolore, qualche gioia, stelle che muoiono, galassie che nascono, i Sapiens che vincono il derby coi Neanderthal, ma niente di veramente nuovo”), che parla come Orson Welles ne Il terzo uomo (“vi guardo da quassù, ridda di formichette assassine e noiose”). Il dio di Benni, va da sé, è un dio bastardo e vendicativo, che si fa domande galattiche (“Perché alcuni bambini muoiono a due anni e altri a dieci già sparano sui propri simili?”) ed è “bianco, biondo, possente e di sesso maschile”, insomma, è l’avatar di Donald Trump e la figurina Panini di Hitler. In fondo, infine, Prendiluna è un manuale per atei in andropausa. Ad ogni modo, il romanzo desertifica ogni forma di divertimento estetico, meglio usarlo come frisbee in spiaggia. Secondo me Benni alleva legioni di Peter Pan in vitro. Poi li muta geneticamente in vampiri.
Stefano Benni, Prendiluna, Feltrinelli, pp.224, euro 16,50
La carota. Di per sé, Vincenzo Gambardella meriterebbe un romanzo, io non l’ho mai visto ma sono convinto che sia il protagonista secondario di un racconto di Nokolaj Gogol’. Classe 1955, napoletano, vive a Milano e le volte che mi telefona, da un luogo imprecisato nelle viscere della città del Manzoni, rimpiange Napoli e parla con vergogna dei suoi libri. Troppo pudico per credere alla fama e cedere alle fole del successo, Gambardella è uno scrittore dall’ironia rara, di vitrea delicatezza, nell’aura di una solitudine boreale. Il romanzo più bello di Gambardella si intitola Il cappotto istriano, l’ha stampato Marietti nel 2008 e Luca Doninelli, scrivendone, vi ha ravvisato i tratti dei “grandi solitari della nostra letteratura: Silvio D’Arzo, Arturo Loria, Antonio Delfini”. L’anno scorso, per il piccolo editore napoletano Ad Est dell’Equatore, Gambardella ha pubblicato una catastrofica storia per ragazzi, Splendore dei randagi, dove i protagonisti sono, appunto, dei cani randagi, intelligenti come Epicuro o Epitteto. Tuttavia, Gambardella eccelle nel racconto breve. Per il minuscolo editore Iemme, sempre di Napoli – dove il ‘milanese’ Gambardella è una specie di Omero vesuviano – Vicenzo, che ama le piccole case editrici, veri e propri bunker del bello, ha appena stampato Scricchiolii. Il racconto che dona il titolo al libro è miracolosamente indimenticabile: due bimbi, Zino a Malina, sono davanti all’armadio, convinti che lì s’accuccia un mostro inquietante. Lui ha armato “il suo fucile ad aria compressa”, lei si sforza di disegnare un fenicottero. I genitori sono all’ospedale – tranquilli, dal dolore sfocerà il miracolo. “Avevano deciso che quella era un prato; no, non erano usciti di casa, il tappeto ormai sostituiva il mondo, era la loro illusione, il luogo ideale per consumare biscotti e aranciata”, è scritto in uno dei passi più delicati del racconto. Il tappeto è un prato, gli scricchiolii sono il ronzio dei denti di un misterioso al di là. Con pochissimi, limpidi gesti, dal nulla, Gambardella crea il meraviglioso. Evoca il fuoco facendo struggere il vento.
Vincenzo Gambardella, Scricchiolii, Iemme edizioni ([email protected]), pp.126, euro 9,90