Il gaucho insopportabile di Roberto Bolaño, appena ripubblicato in Italia da Adelphi nella traduzione di Ilide Carmignani, è una raccolta composita, meticcia, fatta di racconti fantastici e mirabili, ma anche di due testi molto particolari, Letteratura + malattia = malattia e I miti di Cthulhu, entrambi scritti nella forma della conferenza più che del racconto, e posti alla fine della raccolta come due pietre tombali. Più ancora della sua composizione si racconta della sua genesi editoriale, più che particolare, unica. Scritto nelle settimane direttamente precedenti la sua morte, portato di corsa all’editore pochi giorni prima di morire e pubblicato in quelle subito successive.
Insomma, Il gaucho insopportabile è proprio l’ultimo libro di Roberto Bolaño. L’ultimo per sempre, e se il suo autore insistette così tanto per portare personalmente il manoscritto di questo suo ultimo libro al proprio editore prima di morire, quando già il fiato corto della morte ce l’aveva sul collo, significa evidentemente che aveva intuito nitidamente che qualcosa di urgente e scottante fluisse nelle sette prose che compongono questa raccolta.
E qualcosa di urgente e di scottante c’è. Come sempre, verrebbe da dire visto che si parla di uno come Roberto Bolaño, ma in questo caso ancora di più: qualcosa di urgente, di scottante, ma anche di tremendamente attuale.
Se è vero che l’attualità di uno scrittore, più che nella distanza temporale da noi, sta nella misura in cui l’eco di quello che scrive arriva a noi come se fosse sussurrato direttamente al nostro orecchio, senza deformazioni dovute alla distanza, allora Roberto Bolaño, morto da 14 anni quasi esatti, è più vivo e contemporaneo di tutta la letteratura contemporanea. E a dimostrarlo, in questa raccolta, è proprio l’ultimo testo, un meraviglioso attacco contro l’establishement della letteratura contemporanea in lingua spagnola, sarcastico ma nello stesso tempo violentissimo, urgente, crudo e vero.
«Permettetemi in questi tempi bui di cominciare con un’affermazione piena di speranza. Lo stato attuale della letteratura di lingua spagnola è più che buono! È insuperabile! Ottimo!». Così attacca il cileno, che nel corso delle poche pagine del suo ultimo intervento non risparmia i nomi della classe dirigente culturale che vuole accusare. Così come non risparmia nemmeno un grammo di lucidità quando, dopo avere fatto i nomi, legge loro la sua accusa, un’accusa che peraltro non ha perso un grammo di attualità e che funziona fin troppo bene anche per quelle che furono le Belle lettere italiane.
«Gli scrittori attuali», scrive Bolaño, «non sono più dei signorini pronti a fulminare la rispettabilità sociale e tantomeno un branco di disadattati, ma gente che viene dalla classe media e dal proletariato ed è decisa a scalare l’Everest della rispettabilità». Che poi continua con un piglio che qui in Italia non sentiamo dai tempi di Luciano Bianciardi, che questa accusa la fece anche lui nei Sessanta. «Non rifiutano la rispettabilità. La cercano disperatamente. Per raggiungerla devono sudare molto. Firmare libri, sorridere, fare viaggi in posti sconosciuti, sorridere, fare i pagliacci nei programmi di cronaca rosa, sorridere molto, soprattutto non mordere la mano che dà loro da mangiare, presenziare alle fiere del libro e rispondere di buon grado alle domande più cretine, sorridere nelle peggiori situazioni, fare la faccia intelligente, controllare la crescita demografica, ringraziare sempre».
Il pessimismo del cileno è appuntito ed efficace come una freccia scagliata da un arco lungo, ma quel che più deve interessare noi, lettori e suoi posteri, è la lucidità, esattamente quella cosa che, ormai, quasi quindici anni dopo la sua morte, sembra essere scivolata via, lontana dalle nostre abitudini. La lucidità di Bolaño, che noi abbiamo sacrificato sull’altare della fretta, della superficialità e dell’egocentrismo, è quella che gli permette di identificare il più vero e il più cocente dei problemi del nostro tempo: la mediocrità.
«Siamo pessimi a letto, siamo pessimi sotto le intemperie, ma bravi a risparmiare», scrive in un altro frammento de I miti di Chtulhu e poi, ancora una volta affonda: «Ci interessano solo il successo, i soldi, la rispettabilità. Siamo la generazione della classe media». La tavola è apparecchiata. A questo punto a Bolaño, che scrisse queste parole non troppo lontano dall’ospedale dove spirò, non resta che prendere la rincorsa e saltare ed essere così per sempre fedele al proprio disincantamento.
«Seguiamo, quindi, i dettami di Garcia Marquez e leggiamo Alexandre Dumas. […] È nel romanzo d’appendice la salvezza del lettore (e tra parentesi, dell’industria editoriale). Chi l’avrebbe mai detto. Sempre lì a pontificare su Proust, sempre lì a studiare le pagine di Joyce appese a un filo, e la risposta era nel romanzo d’appendice. Ah, il romanzo d’appendice. Ma siamo pessimi a letto e probabilmente faremo un altro passo falso». E ancora, faticosamente, un’ultima frase, l’ultima per davvero prima di andarsene, quella definitiva: «Tutto porta a pensare che non ci sia via d’uscita».