Ma che succede in Spagna? Perché a Barcellona si manifesta contro Airbnb? Perché si scatenano campagne di denuncia dei vicini che affittano case ai turisti? Perché c’è un fenomeno di ostilità ai turisti che ha portato perfino a coniare un neologismo, “turismofobia”? E soprattutto: perché queste tematiche non sono culturalmente marginali, come avviene in Italia, ma tanto centrali da essere state uno dei primi motori che nel 2015 hanno determinato l’elezione dell’attuale sindaca di Barcellona, Ada Colau, che prima della discesa in politica era nota come attivista di un movimento anti-sfratti?
Per capirci di più abbiamo parlato con Alan Quaglieri Dominguez, ricercatore in Studi turistici alla Universitat Rovira i Virgili di Tarragona. Una parte significativa della sua ricerca si concentra sul profilo degli “host” di Airbnb a Barcellona e sull’impatto degli appartamenti turistici sulle dinamiche abitative. «Per leggere queste manifestazioni bisogna pensare a due fenomeni, diversi ma collegati; la questione turistica e la questione della casa», esordisce. La questione turistica si basa su una convinzione precisa, nata in accademia e nei movimenti di base, ma poi diffusasi nell’opinione pubblica: che l’attività turistica alimenti un modello di città che non favorisce uno sviluppo equilibrato a livello territoriale e sociale. Che questa prospettiva si sviluppi a Barcellona può apparire paradossale, perché il suo sviluppo turistico, avvenuto a seguito delle Olimpiadi del 1992, è stato a lungo indicato come un modello da seguire. Cosa ha determinato il cambio di rotta? «Si è rotto l’incantesimo – risponde Quaglieri -. È finita l’era per cui la crescita turistica era un fatto positivo di per sé. La nuova consapevolezza è il risultato di anni di incessante crescita turistica che però hanno disatteso i benefici promessi. Appaiono in modo sempre più evidente le contraddizioni del modello e più intensi gli impatti negativi in termini sociali». Effetti negativi ci sarebbero innanzitutto sul fronte del lavoro, a causa di salari bassi conseguenti a servizi a bassa crescita di produttività, favoriti dalla flessibilità permessa dalla riforma del lavoro del 2013. A farsi voce pubblica di questa condizione è stato il collettivo “Las Kellys”, composto da lavoratrici del settore delle pulizie degli appartamenti turistici.
Il secondo aspetto che ha visto crescere l’insofferenza degli abitanti è legato alla vivibilità dei quartieri, in particolare alcune zone centrali, come le Ramblas e la Barceloneta, dove si manifesta una “movida” al cui confronto quella di Torino, al centro delle cronache degli ultimi giorni, impallidisce. È un tema, peraltro, che da Venezia a Firenze, passando per Capri e le Cinque Terre, è arrivato anche in Italia, con tanto di proposta di instaurare dei regimi di ingresso a numero chiuso in determinate zone.
A Barcellona si è arrivati a manifestazioni di protesta contro quelli che sono considerati gli effetti negativi del turismo, dalla saturazione dello spazio pubblico alla mono-tematizzazione dell’offerta commerciale, fino ai comportamenti “incivili” dei turisti. Le manifestazioni vanno dalla richiesta di una migliore gestione dell’attività turistica fino alla proposta di una “decrescita turistica”, di cui parla paertamente la principale piattaforma attiva su questo fronte, la Abts (Assemblea di quartieri per un Turismo Sostenibile). A livello di scenografia poi, sono proliferati negli ultimi anni messaggi vari su balconi, muri e mobiliario urbano: si va da messaggi “pedagogici” che cercano di sensibilizzare i turisti circa gli impatti negativi fino a scritte che in modo poco poco diplomatico, invitano i turisti a lasciare la città.
Sono tre i motivi del malcontento: le scarse condizioni di lavoro nei servizi legati agli appartamenti turistici. La vivibilità dei quartieri. Ma soprattutto la gentrificazione dei quartieri e la conseguente uscita forzata degli abitanti dai quartieri centrali, storicamente popolari
Ma la questione chiave, per capire il fenomeno spagnolo, è quella del diritto alla casa. La sensibilità su questo tema ha radici storiche, perché ai tempi del franchismo le associazioni tra vicini rappresentarono uno dei pochi strumenti di rappresentanza democratica. La loro importanza è ancora notevole, tanto che il presidente della federazione che le raccoglie, Lluis Rabell, è stato capolista del partito Catalunya Sì Que Es Pot, con forti relazioni con relazionato con Podemos e il movimento della sindaca Ada Colau. Ma è anche un fenomeno recente, perché legato a doppio filo alla bolla immobiliare. La crisi in Spagna, come noto, si manifestò soprattutto attraverso il crollo dei valori delle abitazioni. Una situazione da cui è riuscita a uscire, fino allo sviluppo robusto degli ultimi anni (2017 compreso) attraverso un percorso di riforme e grazie al risanamento del sistema bancario avvenuto con i finanziamenti e le condizionalità della Troika. Tuttavia le conseguenze sociali si sono viste fortemente sul settore immobiliare, con un vasto trasferimento di proprietà delle case dalle famiglie alle banche. Uno degli effetti, è la denuncia dei movimenti vicini all’attuale amministrazione cittadina, è che affittare una casa, così come comprarla, è diventato impossibile per una fetta sempre maggiore di popolazione. Ci sono stati sfratti, ma il fenomeno più evidente è la mobilità forzata verso quartieri più perfierici di inquilini a seguito dell’aumento dei canoni, una volta scaduti i contratti d’affitto. Inquilini senza contratto formale, inoltre, vengono invitati a lasciare l’appartamento nei mesi clou della stagione turistica.
Sono manifestazioni tipiche di “gentrificazione”. Qualche dato rende l’idea. In città come Barcellona dal 2012 il mercato immobiliare si è ripreso: i prezzi sono cresciuti del 5% tra il 2012 e il 2015. In alcuni quartieri sono scesi o sono stati stagnanti, in altri più dinamici sono cresciuti tra il 20 e il 50 per cento. Nel Barrio Gotico i prezzi al metro quadrato sono saliti del 67%, mentre la popolazione residente nello stesso periodo è scesa dell’8 per cento. In un summit organizzato ad inizio giugno a Barcellona con vari sindaci da tutto il mondo per trattare di questioni urbane, chiamato “Fearless City”, una delle principali tavole rotonde è stata relativa alle questioni della casa, del turismo e della gentrificazione.
È in questo contesto che il malcontento popolare ha cominciato ad associare la penuria di case in affitto e il conseguente aumento dei canoni, agli “appartamenti turistici”, anche se c’è dibattito su quanto sia stato profondo l’impatto di questa componente. Airbnb è quindi diventata un simbolo da attaccare. Secondo Quaglieri, tuttavia, c’è una specificità di Barcellona rispetto a città come Milano, dove pure la presenza di Airbnb è diffusa. Ed è il fatto che i quartieri centrali della città catalana erano sono tradizionalmente popolari. «È come se quello che è successo a Barcellona succedesse a Napoli o a Genova», commenta. «In altre parti del mondo è accaduto nel quartiere Williamsburg di Brooklyn, nel Marais di Parigi e nei quartieri Neukölln e Kreuzberg a Berlino».
Ma la questione chiave, per capire il fenomeno spagnolo, è quella del diritto alla casa. Un fenomeno che ha radici profonde ma che si lega anche allo scoppio della bolla immobiliare. Il fenomeno più evidente è la mobilità forzata verso quartieri più perfierici di inquilini a seguito dell’aumento dei canoni
Il malcontento si è manifestato però anche in altre città spagnole, oltre che a Barcellona, come Madrid, ma anche a Palma de Mallorca e Ibiza. «A Palma de Mallorca hanno deciso di vietare tutti gli appartamenti turistici in città. In televisione ci sono sempre più spesso servizi che mostrano come i lavoratori stagionali dormano in auto o accampati perché non ci sono residenza accessibili per i lavoratori». Il fenomeno della distorsione dei prezzi a causa della presenza di appartamenti turistici si manifesta, sottolinea Quaglieri, più nei Paesi europei del Sud, come Spagna e Grecia. «Ovviamente in una città come Oslo non si manifesterebbe un aumento simile di prezzi», dice Quaglieri. «Una stanza per 2 persone a Barcellona frutta in media, secondo dati di Airbnb, 289 euro alla settimana, ossia 1.156 euro al mese. La paga media per un under25 è di 986 euro lordi al mese». Per questo motivo il ricercatore dell’università di Tarragona – cresciuto in Svizzera da madre spagnola e padre italiano e con studi alla Bocconi di Milano – invita a considerare questo tipo di fenomeno come una “esternalità negativa”, paragonabile a quelle sul fronte ambientale.
C’è poi bisogno di un ultimo tassello per capire la particolarità di Barcellona. La normativa regionale in materia di alloggio turistico prevede la possibilità di affittare per brevi periodi a turisti previo cambio d’uso dell’immobile e la concessione di una licenza da parte del municipio. Nella capitale catalana vige dal 2014 una moratoria che congela il rilascio questo tipo di licenze in città, come effetto dell’esplosione del fenomeno soprattuto in quartieri centrali e che in poco tempo ha portato a oltre 9.000 il numero di appartamenti turistici legali.
Per chi conosce anche solo distrattamente Airbnb, risulta chiaro come la distanza sia enorme rispetto a due principi chiave alla base della piattaforma: che chiunque possa affittare la propria abitazione e che possa mettere a disposizione anche solo una camera (home sharing). Per questo motivo Airbnb, spiega Quaglieri, sta tenendo il punto e accettando di pagare le multe, piuttosto che accettare la regolamentazione. Altri siti, come Booking, hanno invece accettato la condizione di abbinare a ogni annuncio di una casa il numero di concessione della licenza. Dal rifiuto di Airbnb sono nate le iniziative di “segnalazione” (sollecitate dalla stessa amministrazione) dei vicini ai danni di chi affitta le case, spesso motivate dal disturbo della quiete pubblica nei quartieri della movida ma anche, aggiunge Quaglieri, «da un’accresciuta consapevolezza degli effetti sul mercato inmobiliario e sul carattere residenziale dei quartieri interessati».
Oggi ci sono dei contatti in corso tra la piattaforma e l’amministrazione. Airbnb ha proposto a febbraio di permettere la pubblicazione di una sola offerta a ogni singolo profilo registrato sul sito, relativamente agli affitti nella “Ciutat Vella”. La giunta comunale ha però parlato di «presa in giro», perché una persona potrebbe aprire più profili e il controllo su abusi del genere sarebbe appannaggio della stessa Airbnb.
C’è una specificità di Barcellona nello scontro con Airbnb. Nella regione per affittare casa per brevi periodi bisogna avere una licenza e non si può risiedere nella casa che si affitta. Un approccio totalmente opposto ai principi base di home sharing della piattaforma
La questione è quindi di carattere legale e inevitabilmente ideologico. In ballo ci sono da una parte i diritti legati alla proprietà privata e alla libertà di iniziativa economica. Dall’altra la rivendicazione da parte dell’amministrazione pubblica del diritto di porre dei limiti all’iniziativa economica in nome della difesa di un bene pubblico (la vivibilità del centro), della programmazione dello sviluppo urbano (si punta a una distribuzione degli alloggi su più quartieri della città, attraverso la concessione delle licenze) e in ultimo della difesa del diritto alla casa, previsto dalla costituzione. I punti di vista sono diversi e, vista la questione dall’esterno, è facile vedere un eccesso di dirigismo nella concessione delle licenze per affittare le case ai turisti. Quaglieri preferisce concentrarsi sui dati: «Airbnb dice che a Barcellona decongestiona l’offerta verso aree meno turistiche. Invece da nostre rilevazioni è emerso esattamente il contrario: gli indici di concentrazione riflettono sostanzialmente l’offerta alberghiera, perché nei primi cinque quartieri (sui 73) di Barcellona c’è il 37,4% dell‘offerta, nei primi dieci il 63,3%. Negli ultimi 10 solo lo 0,3%».
All’occhio di un osservatore non specializzato, c’è però un dato che differenzia Airbnb da altre piattaforme, cioè la distribuzione di ricchezza tra una vasta fetta della popolazione. Relativamente all’Italia, Airbnb comunica che il 49% dei suoi 83mila host che hanno ospitato nel 2015 3,6 milioni di utenti (per un incasso medio di 2.300 all’anno), ha un reddito familiare equivalente o inferiore al reddito familiare medio italiano, pari a 22.200 euro all’anno. L’osservazione del caso di Barcellona dà a Quaglieri una lettura diversa: «Guardando all’offerta complessiva, si può stimare che meno della metà è legata a host che usano esclusivamente il proprio domicilio. Riguardo poi la parte che effettivamente sembra limitarsi alla pratica dell homesharing, emerge chiaramente il protagonismo di “famiglie” che si allontanano abbastanza dalla narrativa Airbnb: per lo più giovani “creativi” professionisti, senza figli, membri di quella che Susan Fainstein chiamerebbe cosmopolitan consuming class».
Si ha l’impressione, aggiunge, «che più che la necessità, al di là di casi aneddotici, Airbnb e altre piattaforme rappresentino l’opportunità di capitalizzare non solo un appartamento ma anche il proprio capitale culturale e sociale, come direbbe Pierre Bourdieu. In fondo l’idea è che oltre all’alloggio offrano anche un’esperienza il cui valore dipende dal profilo dell’host e quindi dalla possibilità di sperimentare (pagando) una certa esperienza di “località” (nel senso di localness). “Like a local” and with a local, ma non con qualsiasi local».
Barcellona non è l’unica città dove ci sono stati scontri tra la piattaforma e le municipalità locali. Esempi ce ne sono stati anche negli Stati Uniti, da New York a San Francisco, ma anche in Europa, da Londra ad Amsterdam. Che questo venga visto come un problema anche in Italia in futuro e trovi una rappresentanza politica, lo vedremo nei prossimi anni. Le sorprese non sono mancate in Europa in tempi recenti.
«Airbnb dice che a Barcellona decongestiona l’offerta verso aree meno turistiche. Invece da nostre rilevazioni è emerso esattamente il contrario»