La grandezza indicibile della tragedia nel passato di Tomas Milian

Cresciuto con un padre autoritario, sergente cubano morto suicida, Tomás Milián ricorda un'infanzia fatta di privazioni, desolazione d'affetto e cinghiate durante l'avvento al potere di Batista. Un passato pieno di sofferenza, ma che ha fatto di lui un vero protagonista di Hollywood

Nell’estate del 2000, in una roulotte allestita come un camerino, affondata nella sabbia del deserto di Tijuana, un uomo in divisa si guarda allo specchio. Imbolsito, calvizie radicale, baffetti scolpiti, sorride amaro dietro i Ray-Ban. «Alla fine sono diventato generale. Come mio padre» sussurra a se stesso, giocando a imitarne l’espressione dura, che gli gelava il sangue, da bambino.

«Bisogna imparare a usare tutto, a cannibalizzare se stessi e la propria memoria emotiva», gli hanno ripetuto alla nausea quasi mezzo secolo prima, ai tempi del suo ingresso all’Actors Studio. Il copione che ha tra le mani e il suo attuale physique du rôle sembrano non lasciargli scampo: non può esimersi dalla filologica reincarnazione di un genitore mai troppo amato. Non gli resta che costruirsi dentro la parte mancante: un’autorevolezza feroce, da pretoriano scelto di Gerardo Machado, dittatoriale Presidente cubano. Era solo un capitano, suo padre, ma nel romanzo a puntate distillato ai giornalisti, nel corso di una lunghissima carriera d’attore, lo ha sempre spacciato per un più enfatico generale. Quel che è certo è che la granitica marzialità paterna non si incrinò nemmeno quando Machado scappò alle Bahamas, nottetempo, per scampare al linciaggio popolare, non prima di aver alleggerito le casse nazionali di alcuni quintali d’oro.

Era il 1933. «L’anno della mia nascita coincide con l’inizio della disfatta di mio padre» constata l’uomo con un ghigno, mentre gli sembra di rivederlo, lo spettro paterno, mentre si aggira guardingo tra le macerie di un’Avana in piena guerra civile. Scoprire molti suoi commilitoni appesi ai lampioni o carbonizzati in roghi di piazza lo convinse che morire, in fondo, sarebbe stato più accettabile che perdere il potere. Nel caos generale un certo Fulgencio Batista, un sergente, si era appena autonominato colonnello e capo della rivoluzione. Suo padre lo detestava visceralmente: per quanto ripulito e imbrillantinato, rimaneva per lui «uno sporco mulatto, un tagliatore di canne da zucchero, discendente di schiavi africani arrivati a Cuba in catene, sul fondo di una stiva. Il suo destino di casta è sputare sangue nelle piantagioni, non certo governare il Paese».

Parole ascoltate mille volte, nell’infanzia, che adesso il vecchio attore ripete a denti stretti, tentando di riprodurne il rancore. Immagina suo padre affondato in poltrona, nella suite più lussuosa dell’Hotel Nacional: nell’attesa che il suo caudillo tornasse dalle Bahamas, pianificava l’eliminazione di Batista, in combutta con altri aficionados machadiani. L’ex sergente ne dissolverà bruscamente ogni velleità restaurativa, espugnando il Nacional a colpi di cannone e falcidiando con cura anche i superstiti, sbucanti dalle macerie dell’Hotel, contusi, anneriti e con le mani alzate. Suo padre fu l’ultimo, ad arrendersi. Batista lo risparmiò, frenato da un’estemporanea pigrizia più che da pietà. Il successivo isolamento carcerario finirà col fargli rimpiangere la mancata fucilazione.

Il suo sguardo, abituato agli spalti gremiti dei campi da polo, disciplina di cui era acclamato campione, si spense gradualmente. Diventò claustrofobico e, dopo molte notti di delirio, trascorse a gridare come se lo stessero spellando vivo, decise di farla finita, piantandosi un rompighiaccio in gola. Lo salvarono di nuovo in extremis, riservandogli l’oltraggio di una reclusione in clinica psichiatrica. Finì a fissare il vuoto in un bungalow isolato, sotto stretta sorveglianza medica, per altri cinque anni. Ne uscì logoro, senza gradi, nessun prestigio, i beni tutti confiscati. Sua sorella gli affidò una finca piena di bestiame, nei campi intorno a L’Avana. Con la morte nel cuore, l’ex capitano sembrò rassegnarsi a spalare letame e spargere mangimi per galline e maiali. Ma la smania di potere covava intatta, sotto la cenere. «Uscendo dalla clinica, si era ritrovato davanti l’unico soldato rimastogli: un figlio di sei anni, io» si racconta per l’ennesima volta, l’uomo in roulotte, ripercorrendo un’infanzia marziale, piena di obblighi e vuoti affettivi. Era un ragazzino svagato, sensibile, poco incline all’igiene personale: immergersi in acqua lo terrorizzava, da quando suo padre, officiando un rito da fureria, gli aveva afferrato i testicoli, sollevandolo. Da allora immaginava che sotto la superficie dell’acqua, vasca o oceano che fosse, lo attendesse in agguato un barracuda, pronto a divorargli i genitali. A castrarlo.

Provò a spiegarlo a suo padre, ma le derive visionarie del suo inconscio aggravarono la situazione. Cinghiata dopo cinghiata, finì col rannicchiarsi in un mondo interiore, inviolabile, alimentato dai tanti film consumati in solitudine, nei cinema dell’Avana. Si lasciava sedurre dallo sfavillio di quelle ombre elettriche sullo schermo, pulsazioni in cinemascope provenienti da galassie misteriose, verso cui, prima o poi, sarebbe riuscito a decollare. La coetanea Shirley Temple, nel suo piccolo, innescò la prima erezione. Crescendo, rimase abbagliato dai torbidi languori di Barbara Stanwyck, protagonista de La fiamma del peccato, e dalla solarità materna di Doris Day.

Il suo gioco preferito rimaneva però l’identificazione con gli istrioni dolenti, facce vissute del calibro di James Cagney e Humphrey Bogart, piene di ferite sulle arcate sopraccigliari, conquistate nei bassifondi. Sintomi esteriori di anime lacerate, come la sua. Specchiandosi in bagno, finì col detestare il suo ovale delicato. Volle essere all’altezza dei suoi miti, e a quanto gli ribolliva dentro. Prese una lametta da barba e si aprì in due il sopracciglio sinistro, lasciando colare il sangue a fiotti, nel lavandino. La ferita lo inorgoglì: era finalmente legittimato a bendarsi. Oggi il ricordo del suo raptus puberale gli strappa un sorriso, mentre si sfiora con un dito la cicatrice ancora evidente, a metà del sopracciglio ingrigito. Gli sembra di risentire la propria voce di un tempo: argentina, perfetta per le zarzuele, operette cubane, residui orali della dominazione spagnola. Il suo cavallo di battaglia era All’ombra dell’ombrello di merletto e seta, cantato a gola spiegata, per scuotere l’indifferenza irreversibile di una madre bella come Liz Taylor. Suscitare amore in quegli occhi azzurri, venati di viola, raggelati dalla depressione coniugale, si rivelò sempre un’impresa vana. Bisognava accontentarsi degli applausi di Dona Julia, una vicina di casa in sedia a rotelle: la sua prima, affezionata spettatrice. M

agro come un chiodo, spalleggiato da Eliana, la sorellina paffuta, di due anni più piccola di lui, imitava i Laurel e Hardy visti al cinema. Diventarono Stanito e Olita, esibendosi sulle assi di piccolo palcoscenico, allestito nel garage condominiale. In cartellone entrò anche il conflitto mondiale in corso, eco di un’Europa lontanissima, orecchiato alla radio e sbirciato sui titoli cubitali dei giornali paterni. I suoi due cuginetti biondi diventarono Roosevelt e Churchill, mentre la rotondità di sua sorella e la sua irruenza mascolina gli valsero il ruolo di Mussolini. Lui, già mattatore, si riservò la parte più ambita, da grande dittatore chapliniano, ravviandosi il ciuffo nero da un lato e disegnandosi col carboncino due baffetti da Führer. Una sera volle arricchire il suo personaggio con un tocco fatale, rubando la divisa di gala dall’armadio paterno. L’ufficiale in disarmo, rientrando in casa, sorprese suo figlio a urlare isterico, pieno di rabbia disperata. Arringava immaginarie masse oceaniche, in tedesco maccheronico, agitandosi in quell’uniforme troppo grande, degradata a costume clownesco. Il vilipendio, colto in flagrante, annebbiò definitivamente la vista di suo padre. «Maricón!» gli gridava forte, prendendo fiato tra una nerbata e l’altra, inorridito dalla passione filiale per quell’arte effeminata. Ne avrebbe fatto un militare, a costo di ammazzarlo.

«Oggi, invece, sarebbe fiero di me» pensa per un attimo, accarezzandosi i gradi davanti allo specchio della roulotte. Ma si ricrede subito: suo padre si sentirebbe nuovamente oltraggiato dalla sua divisa posticcia. Forse lo picchierebbe ancora, senza nessun rispetto per i suoi sessantasette anni.
Mentre un brivido gelato gli scuote la schiena, sprofonda nell’ultima sera del 1945. Si rivede dodicenne, esitante dietro due grandi mampare colorate, le porte girevoli in stile caraibico della camera da letto dei suoi. Voleva parlare a suo padre; poco prima, a casa dei nonni, per la prima volta, l’uomo gli si era rivolto con dolcezza. Prendendolo sulle ginocchia, gli aveva chiesto di prepararsi a diventare adulto, di studiare di più, di cominciare a occuparsi delle donne di casa. Aveva pronunciato quel sermone retorico di fine anno con un tono inedito, quasi dolente. Poi, congedandolo sbrigativamente, aveva raggiunto sua madre, nel patio. Lui era rimasto in disparte, a guardarli da lontano. Li aveva visti scambiarsi sussurri sommessi, poi sua madre si era allontanata improvvisamente, con il viso rigato di lacrime. L’ex capitano era rimasto pietrificato, al centro del cortile. Poi, dopo qualche istante, si era avviato lentamente in direzione della propria stanza.

La scena lo lasciò interdetto. Si arrovellò a lungo, poi decise che il suo compito era andare a parlare con suo padre, da uomo a uomo. Doveva capire perché la mamma stesse piangendo. «Papà sarà felice di vedere che mi prendo cura di mamma, proprio come un grande» pensò attraversando il lunghissimo corridoio. Arrivato davanti alla stanza da letto dei suoi, fu preso da una strana inquietudine: e se avesse frainteso le prescrizioni paterne, andando incontro alla solita razione di botte? Decise di correre il rischio. «Papi! Papi!» – bisbigliò piano, temendo di svegliarlo.
Non ricevendo risposta, prese coraggio e spinse delicatamente le mampare, porte girevoli in stile coloniale. Si ritrovò davanti suo padre, seduto sul letto, avvolto nella penombra, stretto nella divisa di gala. Potè solo intuirne il consueto sguardo di pietra, oscurato dai Ray-Ban. Lo vide estrarre dalla fondina la calibro quarantacinque automatica d’ordinanza e puntarla verso di lui. Paralizzato al centro della stanza, lo guardò togliere la sua faccia imberbe dal centro del mirino per concludere il proprio lento seppuku, appoggiandosi la pistola sul cuore.

Lo sparo gli riesplode in testa, più di mezzo secolo dopo. «Lo start brutale di una nuova vita è coinciso con l’ultimo gesto di violenza di suo padre nei suoi confronti» gli hanno ripetuto frotte di psicanalisti, negli ultimi cinquant’anni.
Lo rivede gorgogliare sangue dalla bocca, lo squarcio fumante nel petto, la pistola ancora in pugno, afflosciato sulle ginocchia. «Come una statua dittatoriale, abbattuta dalle fondamenta, da un popolo in rivolta» ha raccontato da adulto ai giornalisti, ai bordi di tanti set, sublimando l’incubo in una metafora.

Sul momento, stordito dal boato e dall’odore forte di polvere da sparo, fu preso da una violenta euforia: la causa del suo tormento quotidiano si eclissava platealmente, affidandogli l’eredità immediata di una scena madre. Nella parte del protagonista, per giunta. Doveva esserne all’altezza, non poteva tirarla via da dilettante; si avvicinò al telefono, per dare la ferale notizia a sua madre, rimasta nella casa dei nonni. Trovò occupato e riattaccò con stizza, sbattendo la cornetta. Se ne pentì subito, trovando il gesto troppo disinvolto, inadeguato. Si ricordò che spesso, nel canone del melodramma hollywoodiano, lo shock rende maldestri: riprese il ricevitore e provò a farselo scivolare di mano, simulando anche un leggero tremito. L’azione non lo convinse: gli sembrò premeditata, meccanica, priva di pathos. Insoddisfatto, lasciò perdere il telefono e corse in strada, più forte che poteva. Voleva arrivare col fiatone, perché l’affanno sembrasse dolore.

Mentre correva pensò a sua madre e sua nonna: avrebbero accolto la notizia gridando all’unisono. Immaginare la deformazione simultanea delle loro facce e il loro urlo corale gli provocò un’irrefrenabile risata nervosa. Si fermò a rifiatare e si concentrò: non poteva rovinare tutto. Ripartì, arrivando trafelato davanti ai parenti riuniti per la cena di San Silvestro. Farfugliò frasi sapientemente sconnesse, da cui trapelò, con la giusta suspense, la grandezza indicibile della tragedia. Tutti capirono e urlarono stravolti; lui riuscì a non ridere e si applaudì dentro. Si era piaciuto, in quell’esordio molto intimo. «Con quello sparo moriva un soldato e nasceva un attore» si ripete oggi, in roulotte, più di mezzo secolo dopo, alle prese con l’ennesimo incipit. Sta per girare la scena d’apertura di un film. Sarà il centesimo set che calca, eppure oggi percepisce un’atmosfera nuova: fin dalla prima lettura, tra le righe del copione ha intravisto l’ultima fiche da giocarsi, nel cinema americano. Soderbergh, regista indipendente in grande ascesa, gli ha affidato un ruolo di rilievo.

È l’occasione che aspettava da quindici anni, dal giorno del suo arrivo in America.

In una lunga vita precedente, spesa a Cinecittà, aveva calpestato ogni set possibile, offrendo manciate di talento a venerati maestri e rudi artigiani. A metà degli anni Settanta, assecondando la discesa spiraliforme della sua carriera, inversamente proporzionale ai suoi compensi, si era ritrovato star incontrastata di polizieschi declinati in farsa, nei panni di un truce commissario romano con un passato da ladro di borgata. Per tutto il decennio successivo riempì i cinema di terza visione e orripilò i critici, esasperando la grevità di gesti e posture, doppiato in un romanesco di pirotecnica volgarità.

Devoto alle leggi del botteghino, provò a fermare il tempo. Per sembrare un eterno trentenne mise in atto, di film in film, la propria definitiva trasformazione in maschera. Inventò una mise da clown greve, utile anche a nascondersi, a rispettare il suo illustre passato. La calvizie incipiente fu seppellita da un folto parruccone nero mentre l’adipe in eccesso venne ingoiata da un’ampia tuta da metalmeccanico. Colate di trucco nero ne annichilirono lo sguardo da esistenzialista, ormai superfluo. Il suo personaggio, tirato avanti per dieci lunghi anni, cominciò a mostrare la corda, arrivando ad annoiare anche i fan più triviali. Di sicuro, stomacò il suo interprete. Alcol e cocaina non furono un placebo sufficiente: psicologicamente logoro, a metà degli anni Ottanta l’attore cubano decise di lasciare un cinema italiano in pieno declino, artistico e industriale. Sentì che i tempi erano maturi per tornare a inseguire il suo sogno di bambino: esordire a Hollywood.

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