Se c’è una parola che sta diventando un tormentone, una buzzword, un totem, è “formazione”, o “training” in inglese. Non c’è discorso sul lavoro, in questi tempi angosciati dall’avanzare dell’intelligenza artificiale e dei robot industriali, che non arrivi allo stesso punto: è sempre più urgente di preparare i lavoratori alle nuove competenze che saranno richieste quando quelle attuali saranno state automatizzate. Ne ha parlato Bill Gates, a corollario della sua proposta di mettere una tassa sui nuovi robot installati nelle imprese. C’è tornato più volte Barack Obama, anche di recente a Milano. L’Economist, dopo una serie di articoli sui cambiamenti del lavoro dovuti alla tecnologia, lo scorso gennaio ha dedicato al tema uno speciale di 16 pagine, dal titolo significativo di “Lifelong Learning – How to survive in the age of automation”. Attenzione, si concludeva lo studio, a non lasciare indietro i lavoratori a bassa qualifica, quelli che oggi sono più lontani dai programmi di training. Allarme che ha lanciato su Linkiesta anche Stefano Scarpetta, a capo del dipartimento Lavoro dell’Ocse. Ma se c’è una persona che ha posto la questione sotto i riflettori è il nuovo presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron. Basta un dato per capire il peso che dà alla questione: il piano di spending review da 60 miliardi sarà compensato da 50 miliardi di investimenti. E di questi, ben 15 saranno destinati alla formazione e rinnovo delle competenze dei lavoratori, proprio per far fronte alle sfide poste dai cambiamenti tecnologici.
Ci sarebbe da rallegrarsi, di questa presa di coscienza globale, se non fosse che la situazione italiana sul fronte della formazione professionale è drammatica. In primo luogo perché, guardando i dati della Commissione europea su base Eurostat, emerge tutta la distanza delle politiche attive italiane da quelle del resto dei Paesi europei.
Macron ha preso sul serio la questione: dei 50 miliardi di investimenti previsti, ben 15 saranno destinati alla formazione e rinnovo delle competenze dei lavoratori, proprio per far fronte alle sfide poste dai cambiamenti tecnologici
Ma c’è molto di più. Decine di inchieste, giornalistiche e giudiziarie, hanno fatto luce sugli scandali della gestione regionale della formazione delle persone disoccupate. Si era posto un correttivo, con la riforma costituzionale e con la contemporanea creazione dell’Anpal, l’agenzia nazionale delle politiche attive e del lavoro. Ma con un problema: non c’era un piano B in caso di bocciatura del referendum costituzionale. Così, dopo il 4 dicembre, l’Anpal è di fatto paralizzata. Ma anche la formazione nelle imprese è in ritardo: poca, di scarsa qualità, concentrata sui corsi obbligatori e sui quadri e dirigenti. Quando la rivoluzione tecnologica mostrerà i suoi effetti in modo dirompente, il rischio è di ritrovarci con un sistema industriale e di servizi impreparato.
Cominciamo dalla formazione per chi perde il lavoro. Nel riordino del titolo V della Costituzione, previsto dalla riforma bocciata a dicembre, era stato previsto che politiche attive del lavoro entrassero nella Costituzione e ci entrassero come materia di competenza dello Stato. Oggi, bocciato il referendum, le competenze sono rimaste sotto le regioni. Significa avere 20 sistemi differenti, nell’approccio, nella burocrazia e nei risultati. Gli scandali si sono susseguiti, con la Sicilia a fare da regina dello spreco e del clientelismo (i formatori sono arrivati a essere 10mila, di cui solo un terzo laureati) ma soprattutto dell’inefficacia. Truffe a vario titolo, per mettere le mani sui fondi europei, però ce ne sono state ovunque, perfino nel disciplinatissimo Trentino. D’altra parte uno dei meccanismi che ha favorito gli scandali è che, a monitare i risultati portati a casa dagli enti, per lo più privati, non c’è nessuno (come denunciato a marzo da un’inchiesta di Repubblica). Sotto accusa ci sono anche i tipi di corsi erogati, sbilanciati su lingue e informatica, con kit preconfezionati proposti, secondo l’Isfol, dal 37,4% delle strutture. Poco che abbia a che fare con le sfide dell’automazione. Ancor meno con l’offerta di lavoro sul territorio. Molto che ricorda il refrain che in questo campo si sente molto ripetere: che la formazione gestita dalle regioni serva molto ai formatori e poco ai formati. Anche se i risultati, va detto, sono molto diversi da regione a regione.
La situazione è grave anche se si va a guardare le condizioni in cui versano gli enti che dovrebbero occuparsi di trovare lavoro a chi non ce l’ha, i centri per l’impiego. «Sono in stato di totale abbandono da due anni», sintetizza Francesco Giubileo, esperto di politiche attive del lavoro ed ex consigliere di amministrazione di Afol Metropolitana, l’agenzia per la formazione, l’orientamento e il lavoro dell’area metropolitana di Milano. Il paradosso è che questi centri, pur essendo i principali soggetti pubblici responsabili di questi servizi, sono tuttora dipendenti da enti fantasmi, ossia le province, rimaste senza soldi e peso politico. Così i centri per l’impiego hanno subito il taglio delle risorse, a partire dal blocco del turnover. Solo in alcune realtà, come il Friuli-Venezia Giulia, si è riusciti a metterli sotto il controllo diretto della regione, che ha più risorse da investire. In altre regioni, anche virtuose come la Lombardia, si assiste invece a molte realtà locali inefficaci, compensate dall’azione delle agenzie di lavoro private.
Il risultato del turnover è che oggi i centri per l’impiego hanno in totale 5.740 dipendenti in tutta Italia. Sono pochi, ma non è il problema principale. Piuttosto, il tema è quello delle competenze. Dobbiamo porci tre domande, suggerisce Giubileo. «Nei centri per l’impiego ci sono gli psicologi che sono in grado di fare un vero bilancio delle competenze? Ci sono agenti commerciali in grado di relazionarsi con le aziende dei territori? Ci sono esperti di social media marketing? Le risposte sono tre no», aggiunge. «Con le attuali risorse e senza un piano di rafforzamento strutturato, non è possibile formare gli attuali dipendenti». Non solo: anche in questo caso di monitoraggio non c’è. «L’Italia è l’unico Paese europeo, tolta la Romania, che non lo prevede», commenta Giubileo.
Con la bocciatura del referendum costituzionale le competenze sulle politiche attive per il lavoro sono rimaste alle Regioni, che fin qui le hanno gestite male, salvo eccezioni. Mentre i centri per l’impiego sono in totale abbandono, tuttora affidate a enti ectoplasmatici come le province
Per mettere ordine in questo caos è stata istituita, nel 2015, l’Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro, Anpal. Se la riforma costituzionale fosse passata, l’agenzia avrebbe dovuto dettare le linee guida a tutte le regioni sul tema della formazione. Si sarebbe dovuta occupare di monitoraggio. Avrebbe avuto sotto il proprio controllo i centri per l’impiego. Avrebbe cioè dovuto risolvere i problemi appena descritti. Cosa rimane oggi? Poco sul fronte del coordinamento delle regioni, con cui pure c’è un dialogo in sede di conferenza Stato-Regioni ma che sono lontane dallo scambio di dati orginariamente previsto. L’agenzia gestisce diversi progetti, tra cui la prossima assunzione nel proprio ente di 300 tutor che dovranno fare da ponte tra scuole e aziende. Ma il principale impegno è la sperimentazione dell’assegno di ricollocazione. Nei fatti è l’unica buona notizia che si segnala su questo fronte. Buona per il metodo, perché per la prima volta l’attenzione si concentra sul lavoratore. Ogni persona che ne ha diritto, cioè chi è disoccupato e percepisce la Naspi da quattro mesi, può rivolgersi a un centro per l’impiego, a un’agenzia di collocamento privata o alla Fondazione dei consulenti del lavoro. In base ad alcuni criteri gli viene assegnato un livello di occupabilità, a cui corrisponde un peso diverso dell’assegno, da 250 a 5mila euro. Con quella somma l’agenzia si prende in carico il disoccupato, anche attraverso percorsi di formazione ad hoc, sotto il controllo di un tutor. L’assegno si incassa a risultato ottenuto, che dev’essere un contratto di lavoro. La misura ha poi valenza nazionale, superando le barriere regionali: un disoccupato di Fermo, per dire, può rivolgersi a un centro per l’impiego a Lodi o a un’agenzia per il lavoro a Ravenna. Nella fase di sperimentazione hanno ricevuto la lettera per l’avvio della sperimentazione in 30mila. Ma le risposte sono state pochissime, a metà aprile erano solo 600, perché i beneficiari hanno la possibilità di “pensarci su”. «È un segno che anche per i lavoratori serve un cambiamento culturale, con l’accettazione della necessità di mettersi in gioco», commenta Francesco Seghezzi, direttore della Fondazione Adapt, il centro studi sul lavoro fondato da Marco Biagi. Che succederà una volta finita la sperimentazione? A ottobre novembre, commentano dall’Anpal, si tratterà di tirare le somme. «Speriamo che ci siano risorse sufficienti per allargare la platea dei beneficiari a tutti gli aventi diritto» commentano dall’agenzia.
Secondo Seghezzi, il cambiamento culturale richiederebbe anni di continuità della nuova agenzia nazionale, «per questo è preoccupante che a un anno e mezzo dalla sua formazione sia al punto di partenza». Tuttavia, anche l’impostazione seguita potrebbe essere più aggiornata. La nuova agenzia, commenta, si ispira alla flexsecurity scandinava, che però «è stata pensata 15 anni fa. Allora si pensava che i centri per l’impiego avrebbero dovuto coprire dei buchi straordinari nei percorsi lavorativi delle persone. Ora sappiamo che la transizione da un lavoro all’altro, da dipendente a indipendente e viceversa, è la norma. Bisogna pensare a una formazione continua, diversa dai modelli del passato».
L’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro avrebbe dovuto risolvere molti dei problemi esistenti sul fronte delle politiche del lavoro. Oggi si occupa principalmente di una sperimentazione dell’assegno di ricollocazione. Per la cui estensione se ne riparlerà in autunno, ammesso che ci siano le risorse. Finora le adesioni sono state pochissime
Se di formazione continua si parla, una nota va fatta anche su quella che fanno o dovrebbero fare le aziende. Anche su questo fronte il ritardo è storico e la formazione è uno dei tipici centri di costo che viene tagliato nei momenti di crisi. I dati Eurostat, recentemente citati in un’indagine di Confimprenditori, mostrano come la percentuale delle persone tra i 25 e i 64 anni impegnate in percorsi di longlife learning in Italia sia del 7,3%, tre punti in meno della media dell’Ue a 28, meno della metà della Francia e a distanza siderale dai Paesi scandinavi, capeggiati dalla Danimarca (31%) e, fuori dall’Ue, dalla Svizzera (32%). «Il nostro Paese – notava l’indagine di Confimprenditori – risulta piuttosto arretrato sul piano della formazione continua sia personale sia sul lavoro». Una carenza di formazione che ha impatti negativi sulla produttività del lavoro e che ha molte spiegazioni, tra cui la difficoltà di fare percorsi di training nelle piccole e medie imprese, la fragile ossatura del nostro sistema produttivo. Anche in questo caso, sottolinea Seghezzi, più che alla quantità è il caso di guardare ai problemi della qualità della formazione, dato che la prevalenza dei corsi somministrati è di tipo obbligatorio, sui fronti della salute e sicurezza. «Il passo necessario è ancora una volta di tipo culturale. La formazione dei lavoratori dovrebbe essere considerata dalla aziende come un investimento. E, sul fronte delle policy, ritengo che debba essere detassata». Inoltre, una formazione efficace, aggiunge, va abbinata a un’innovazione dei processi, altrimenti serve a poco. Qualcosa di simile a quello che ha fatto Fca in contemporanea con l’introduzione del suo metodo di produzione World Class Manufacturing (Wcm). Una sorta di roadmap per la riqualificazione della forza lavoro si trova anche nel progetto “Harnessing Revolution – Creating the future workforce” di Accenture, che individua 30 nuovi tipi di lavoro e 40 nuove competenze da sviluppare. Dall’indagine della società di consulenza (presentata durante l’inaugurazione del nuovo Accenture Innovation Architecture di Milano) emerge che il 95% del personale è consapevole dell’importanza dello sviluppo di nuove competenze. Ma solo un terzo si dichiara soddisfatto delle opportunità di apprendimento messe a disposizione dal datore di lavoro.
Una spinta, su questo fronte, potrà arrivare dall’inserimento del diritto soggettivo alla formazione nell’ultimo contratto dei metalmeccanici. Le ore ottenute dai sindacati, 24 in tre anni, sono però da considerare più un punto di partenza che un traguardo. La collaborazione dei sindacati è indicata come la strada da seguire, nella formazione dei lavoratori low-skilled, anche nell’analisi dell’Economist. E qualche risultato positivo su questo fronte è stato ottenuto. Un’indagine di Fondimpresa presentata il 31 maggio durante il convegno “Formazione in fabbrica, il capitale umano”, a Roma, si è concentrata su 47 dei 58 piani del metalmeccanico finanziati dal Fondo di Confindustria Cgil Cisl e Uil con l’Avviso 3/2015. A fronte dei 72 milioni di euro stanziati, sono stati formati «in totale, circa 16mila lavoratori di 2.908 aziende, per il 90% Pmi, realizzando oltre 95mila ore di formazione, delle quali oltre 28mila certificate», si legge nella ricerca. In dieci anni, spiegano da Fondimpresa, sono stati stanziati 2,5 miliardi di euro attraverso i fondi interprofessionali. Di questi soldi, un miliardo è stato stanziato per la “formazione per la competitività”, vale a dire per corsi lontani dalle solite lingue e informatica. Tra questi corsi si segnalono quelli in qualificazione dei processi produttivi, organizzazione, innovazione, contratti di rete, internazionalizzazione, commercio elettronico, digitalizzazione.
«La formazione nella rivoluzione di Industria 4.0 – ha detto durante il convegno Marco Bentivogli, segretario generale della Fim Cisl – rappresenta il diritto al futuro, dà stabilità al lavoro, più reddito e più qualità, ma tutte le parti devono considerarla una parte strategica e un terreno dove possiamo trovare comuni obiettivi d’azione. La formazione negoziata rappresenta una parte importante che va integrata con altre opportunità formative. Con Industry 4.0, l’upgrade di skills sarà impegnativo perché come Paese ci siamo mossi tardi, ma non c’è alternativa: nuova organizzazione nuove tecnologie e formazione: i tre cardini per rilancio imprese». Alle necessità dell’industria 4.0 viene oggi dedicato il 12% delle attività di formazione, 8 punti percentuali in più rispetto alla rilevazione dell’anno precedente. Quando si discute del piano Calenda, che incentiva l’acquisto di macchinari e la ricerca e sviluppo, la tipica risposta delle piccole e medie imprese è che servirebbe dare più attenzione agli aspetti formativi.
Una formazione all’altezza dei tempi non può però limitarsi alle esigenze delle aziende. Deve prevedere anche percorsi sull’occupabilità dei dipendenti, data l’instabilità crescente del mondo del lavoro e le sfide crescenti per i lavoratori. Su questo fronte, aggiunge Giubileo, molto potrebbe cambiare con la riforma del welfare aziendale annunciata ad aprile nel Def.
Su Linkiesta sono stati raccontate da poco le iniziative formazione per dipendenti e clienti/fornitori ma anche studenti medi e universitari, tramite le academy interne, di società dell’automazione come Comau, Siemens, Bosch, Piz, Cisco e Festo. Tra le altre realtà che preparano gli operai di domani ci sono Quanta e la Tag Innovation School di Talent Garden.
«La formazione rappresenta il diritto al futuro»