LettureL’impresa chiude, i lavoratori se la comprano (e salvano 14mila posti di lavoro)

Nel libro “Se chiudi ti compro” (Guerini e Associati), il sottosegretario Paola De Micheli, il deputato Pd Antonio Misiani, insieme al giornalista Stefano Imbruglia, raccontano dieci storie di aziende italiane rigenerate dai lavoratori (il cosiddetto workers buyout)

Non si sono arresi alla cassa integrazione, alla crisi economica e alla chiusura. Si sono messi in gioco, hanno investito soldi (anche di tasca propria) e tempo, si sono ridotti gli stipendi e hanno salvato le aziende per cui lavoravano, cercando di non ripetere gli errori degli ex datori di lavoro. Nel libro Se chiudi ti compro (Guerini e Associati), il sottosegretario Paola De Micheli, il deputato Pd Antonio Misiani, insieme al giornalista Stefano Imbruglia, raccontano dieci storie di aziende italiane rigenerate dai lavoratori (il cosiddetto workers buyout). Un viaggio, con la prefazione di Romano Prodi, all’interno di dieci capannoni destinati alla chiusura. E che in comune invece hanno solo l’epilogo. Si va dalla più antica azienda rigenerata ancora in attività, la Scalvenzi in provincia di Brescia, alla Cartiera Pirinoli di Roccavione; dall’Industria Plastica Toscana, rinata grazie al green, alla Tecnos, che oggi sta provando a conquistare il mercato americano. In trent’anni dalla legge Marcora, quella che nel 1985 ha inventato il workers buyout fornendo una serie di agevolazioni per la rigenerazione, sono stati salvati oltre 14mila posti di lavoro. Altrimenti destinati a finire nel serbatorio della disoccupazione.

In nessuna delle dieci crisi aziendali «la colpa è dello Stato, delle sue regole e della sua tassazione», scrivono gli autori. Che individuano per ogni storia le ragioni del fallimento imprenditoriale: chi non si è saputo reinventare, chi non è stato al passo dei tempi, chi ha speso e sprecato troppo, chi ha smesso di investire senza innovare, chi ha subito un ricambio generazionale non all’altezza. Imprenditori bravi e meno bravi, travolti dalla crisi economica.

A salvare i capannoni l’impegno di chi prima era dipendente, e si è reinventato socio. Non si tratta di storie semplici, anzi. Dietro le imprese rigenerate spesso ci sono storie di dolore. Come la Zanardi Editoriale di Padova, che stampava per i migliori editori italiani. Nel febbraio del 2014 uno dei titolari, Giorgio Zanardi, si impicca mentre l’azienda è sommersa dai debiti. Dopo l’analisi dei conti e una lunga riflessione, si decide di dare l’impresa in mano ai lavoratori. Settanta di loro aderiscono al progetto, coinvolgendo il settore commerciale della vecchia ditta, prezioso per le sue relazioni.

Nuovo corso e vecchio corso si uniscono in molte di queste storie. La rottamazione non è mai totale. Uno dei segreti per il successo è che «tra gli aderenti ci siano le figure chiave al funzionamento dell’azienda e manager competenti per gestire l’impresa», scrivono gli autori. Ma senza ripetere gli errori precedenti.

La rottura con il passato spesso passa dal taglio dei costi. Alla Pkarton i componenti del consiglio di amministrazione guadagnavano 280mila euro, oggi i tre componenti del cda non percepiscono nessun compenso, accontentandosi del solo stipendio pagato dalla cooperativa per la mansione svolta. Per sottolineare il cambio di stile, sono stati fatti tagli simbolici. Come la pulizia degli uffici, di cui si occupano gli impiegati a turno. E l’attenzione ai costi è quasi maniacale: adesso prima di uscire da un ufficio è «obbligatorio» spegnere la luce. Piccole economie che paragonate alla generosità di alcuni stipendi della precedente gestione fanno sorridere. Alla Raviplast, ivece, prosciugata anche dalle ingenti somme trasferite dalla famiglia Nori al Mantova Calcio, hanno deciso di concentrarsi solo sui prodotti che davano una buona redditività, individuando in 25 unità l’organico sostenibile. Non senza un aspro confronto con il sindacato. «Spesso quando esistono le condizioni per rigenerare le imprese, sono necessarie delle ristrutturazioni che comportano un taglio della forza lavoro. Riteniamo che sia meglio salvare il salvabile piuttosto che perdere tutto. Su questo punto dovrebbero iniziare a riflettere anche certi sindacalisti», si legge.

In alcuni casi, come accadde per l’Industria Plastica Toscana, qualcuno aveva detto: “Tanto non arriverete a mangiare il panettone”. E invece si è dovuto ricredere. Nel 2008 la fabbrica dei sacchetti, prima della svolta verde, fatturava circa dieci milioni di euro. Nel 2015 il fatturato è stato di 33 milioni di euro. Così come la Breslab, nata dalle cenerei di Ceramica Magica, che ha chiuso il 2016 con un fatturato intonro ai 18 milioni di euro e oggi dà lavoro a 80 persone di cui 55 soci e 25 dipendenti. O la Tecnos, il cui fatturato nel 2016 ha registrato un incremento del 30 per cento.

Una vera “politica attiva” del lavoro, diversa dai tanti salvataggi di aziende decotte costati molto alle casse pubbliche. Uno spaccato dell’operosa e pragmatica provincia italiana e delle nostre piccole e medie imprese, dove è più semplice, rispetto alle grandi, trovare la coesione e l’identità di vedute che sono fondamentali per la rigenerazione

Il workers buyout è una soluzione contro la disoccupazione? Forse. Tra il 2008 e il 2014, l’Italia ha speso 154,3 miliardi di euro in ammortizzatori sociali (cassa integrazione, prepensionamenti, sussidi di disoccupazione ecc.) per sostenere le persone che si trovavano in difficoltà per problemi legati al lavoro. Parallelamente, i dati del Cfi (Cooperazione Finanza Impresa, la società partecipata dal Mise che si occupa di promuovere le operazioni di workers buyout) dicono che in trent’anni dalla legge Marcora sono state finanziate 370 imprese, salvando oltre 14mila posti di lavoro con un investimento complessivo di poco superiore a 200 milioni di euro e un ritorno largamente positivo per le casse dello Stato. Oggi il numero di lavoratori impegnato in questo tipo di imprese è di 7.627, con un investimento medio per addetto è di 13.480 euro. E il calcolo è che l’investimento ha «generato un ritorno economico per lo Stato pari a 6,8 volte il capitale impiegato».

Una vera “politica attiva” del lavoro, diversa dai tanti salvataggi di aziende decotte costati molto alle casse pubbliche. Uno spaccato dell’operosa e pragmatica provincia settentrionale italiana e delle nostre piccole e medie imprese. Dove è più semplice rispetto alle grandi – è bene precisarlo – trovare la coesione e l’identità di vedute che sono fondamentali per la rigenerazione.

«Le persone che hanno dato vita a queste imprese rigenerate sono uomini e donne da prendere ad esempio», si legge nel libro. «Lavoratori che avrebbero potuto fare come hanno fatto una parte dei propri ex colleghi. Dipendenti in cassa integrazione che, come riportato in qualche cronaca locale, in diversi casi hanno preferito continuare a incassare l’assegno e, nel frattempo, fare dei lavoretti al nero. Oppure come quei “furbetti” che lavoravano per ditte concorrenti alla propria, segando il ramo nel quale stanno (stavano?) seduti. Furbetti che fortunatamente sono una minoranza, mentre per la maggioranza dei lavoratori vivere di sussidi è, oltre che un minor introito nelle casse familiari, anche un problema di dignità. C’è pure una terza parte di lavoratori per i quali il sussidio di disoccupazione diventa una sorta di metadone. Il lavoratore diventa passivo e si adagia sul piccolo benessere procurato dal sussidio. Un assistenzialismo che non ci possiamo permettere».

A 32 anni dalla legge Marcora, il workers buyout potrebbe rappresentare una soluzione per tante piccole imprese in difficoltà. Ma anche per quelle confiscate alle mafie, che oggi spesso finiscono per fallire. «Siamo convinti che non esista una soluzione buona per tutti i problemi», scrivono i tre autori. «La varietà del nostro sistema produttivo e delle sue criticità richiede interventi che poco si adattano agli slogan propagandistici. Ci piacerebbe che da questo libro si sviluppasse un dibattito maturo e senza slogan nell’individuare politiche attive del lavoro. Proposte che vadano nella direzione di dare risposte reali ai problemi concreti di chi resta senza un’occupazione. Ben vengano proposte di reddito di cittadinanza e similari, ma chi le avanza ha pure il dovere di spiegarci come pensa di collocare i disoccupati se non si creano posti di lavoro e quelli che ci sono li perdiamo».