Occident Ex-PressPerché Vladimir Putin e i russi sono fissati con Bari?

«Putìn! Putìn» è il nomignolo che usano alcuni ragazzini pugliesi per chiamarsi. La storia delle relazioni Bari-Russia attraversa i secoli: dal culto di San Nicola allo stadio di calcio, dalle nozze della nipote di Tolstoj fino ai trafficanti di uomini “di lusso”

Il cielo è azzurro sopra la Basilica di San Nicola. Le cartacce, i profumi e il calore dei panzerotti appena sfornati invadano la piazza adiacente e fanno da contorno al via-vai di turisti russi che entrano in chiesa, rendono grazie al patrono “”Nikolai” e, da buoni e ferventi fedeli, si recano nella sala offerte per lasciare un obolo pieno di rubli e devozione.

Quarantadue chilometri più a ovest siamo ad Altamura, la città del pane. «Putìn! Putìn» gridano alla sera i ragazzini per contattarsi da un angolo all’altro della strada. “Putin” si chiamano fra di loro, come Vladimir, l’imperturbabile leader russo. Ma il cognome viene pronunciato con l’accento tronco, spostato sull’ultima sillaba. Un nomignolo che più che altro è un richiamo. Come dire “zio” a Milano o “cumpà” a Napoli.

«Putìn! Putìn» gridano i ragazzini di Altamura per chiamarsi l’un l’altro. Il legame fra la Russia, Bari e la Puglia è plurisecolare e passa per le reliquie di San Nicola, lo stadio e l’immigrazione

Il nome di “Vlad”, quello vero, è inciso su un muro di Bari. Un bassorilievo che riporta la firma del Presidente della Federazione russa proprio di fronte alla Basilica di San Nicola. La firma accompagna il discorso di ringraziamento tenuto alla città, scritto in alfabeto latino e cirillico: “Sono lieto di salutare cordialmente la città di Bari […] In quanto la vostra terra e la Russia sono uniti da un legame plurisecolare. Quale dono alla vostra città, che custodisce quel grande e sacro tesoro che sono le reliquie di San Nicola, arcivescovo di Mira di Licia, si trasmette una statua dello stesso taumaturgo”. La sacra alleanza sancita da Putin fra cattolici e ortodossi è datata 16 aprile 2003. Quattordici anni prima che le reliquie tornassero a casa – la prima volta in 930 anni di storia – come avvenuto proprio a fine maggio del 2017, con tanto di celebrazione, corteo e liturgia scandita dal coro di San Pietroburgo, nel pieno centro del capoluogo pugliese, prima che le vestigia prendessero il volo dall’aeroporto nelle mani del metropolita Hilarion Alfeev, Presidente del Dipartimento relazioni esterne del Patriarcato di Mosca.

Il rapporto fra la Russia e Bari non si salda solo sulla vita e i miracoli di un Santo. Mecenati e oligarchi amici di Putin volevano mettere le mani sulla squadra di calcio fallita nel 2014. Niente di meglio alla domenica che celebrare due messe: quella mattutina in Basilica e quella pomeridiana sempre al San Nicola – lo stadio, il quarto impianto d’Italia per capienza, costruito in occasione dei mondiali di Italia ’90 e intitolato al Santo proprio per volere popolare. Non se ne è fatto nulla ma la città vecchia di Antonio Cassano ha potuto sognare il proprio Roman Abramovič in formato meridionale.

La firma di Vladimir Putin, quella vera, è incisa su un muro della città vecchia sotto al discorso di ringraziamento alla città del 16 aprile 2003. Quattordici anni prima che le reliquie di San Nicola prendessero il volo per tornare a casa

Cambiamo panorama: ci sposiamo di 200 chilometri, in mezzo al mare, fra l’Albania e il Salento. Le motovedette classe 6000 “Levriero” del Reparto Operativo Aeronavale della Guardia di Finanza viaggiano a 50 nodi e solcano le onde dell’Adriatico. Le Fiamme Gialle fermano una barca a vela: la ciurma è georgiana; il natante sembra apposto; ma sotto coperta sono nascosti uomini, donne e bambini siriani. Ceto medio borghese di Aleppo, Homs e le altre città martoriate dalla guerra. Sono medici, avvocati, ingegneri e hanno pagato 5mila dollari, anche 10mila, per un viaggio “di lusso” in direzione della Puglia – nulla a che vedere con la Libia e l’inaudita violenza dei trafficanti nel Mediterraneo centrale. I marinai-skipper, come li chiamano la GdF, hanno garantito che si arriva sani e salvi sulle spiagge di Santa Maria di Leuca o Otranto. Senza essere intercettati. Gli è andata male. I dispositivi aeronautici dell’Agenzia europea Frontex li hanno avvistati e segnalati già in Grecia, avvisato con un dispaccio il quartier generale di Pratica di Mare che a sua volta ha chiamato i finanzieri pugliesi.

È questa la nuova frontiera per chi scappa oggi dalla Siria: la rotta balcanica è chiusa; l’accordo fra Bruxelles e Ankara ha eretto un muro invisibile nelle 15 miglia di mare che separano le isole greche dalla costa turca e i corridoi umanitari dal Libano, realizzati dalla Comunità di Sant’Egidio, valgono sì e no 1000 rifugiati all’anno. Allora ci si affida alle “compagnie navali” guidate da equipaggi russofoni, georgiani, ucraini di Odessa o Sebastopoli e turcomanni, formatisi come pescatori e contrabbandieri sul Mar Nero, per un viaggio di 3-4 giorni che porta in Puglia, in Calabria o in Sicilia. Un fenomeno interessante ma comunque minoritario: il Procuratore di Siracusa, Francesco Paolo Giordano, e il Commissario Carlo Parini, hanno parlato in commissione Difesa al Senato e al New York Times di 20 casi nel 2016 a largo dei mari isolani.

Dalla Turchia alla Puglia in barca a vela: è questa la nuova frontiera dei trafficanti di uomini. Equipaggi organizzati russofoni e migranti siriani del ceto borghese che possono pagare fino a 10mila euro a testa

C’è stato un tempo, però, in cui i russi non erano i trafficanti ma i migranti che sognavano la Puglia e Bari: un’emigrazione elitaria fatta di figli della nobiltà di Mosca che finirono a combattere nel Risorgimento per l’indipendenza italiana. Erano tempi di guerra e pace e infatti il figlio del senatore liberale Luigi Albertini (1871-1941) portò all’altare Tania Tolstoj, nipote del più grande scrittore russo. C’è stata un’emigrazione nei primi del ‘900, anche quella intellettuale: il drammaturgo Maksim Gor’kij su tutti, accolto come un simbolo della lotta all’intellgencija zarista, dall’Italia, il Paese in cui, secondo il teorico anarchico russo Bakunin, si sarebbe sviluppato il più imponente movimento rivoluzionario d’Europa: nelle poche fabbriche del nord e nelle numerose campagne di tutta la penisola. Lo scriveva nell’introduzione di Stato e Anarchia mentre la vera rivoluzione la facevano altri: il simpatico consorzio futurista (e poi fascista) che in quegli anni scorrazzava per i teatri della penisola fra risse performative e manifesti letterari. La rivoluzione alla fine scoppiò. Nel 1917, non in Italia ma nella grande madre Russia. E fece altri migranti: i figli traditi del bolscevismo che fino agli anni ’70 ambivano venire nel Bel Paese. E infine c’è stato l’89, il crollo del muro e le frontiere spalancate per vie legali. E l’insediamento di piccole mafie: usura, recupero crediti, tabacchi lavorati esteri di contrabbando, prostitute e appunto migranti – queste le attività a cui si dedicano frange della criminalità organizzata russa e slava. Da Bari a Taranto fino a Lecce e Foggia come scrive nei propri report la Direzione nazionale antimafia guidata da Franco Roberti.

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