Sono tempi particolari. Mentre la nuova amministrazione americana ritira il suo sostegno al libero commercio, il presidente cinese Xi Jinping canta le lodi della globalizzazione. Mentre Donald Trump ritira gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi sul clima, Emmanuel Macron lancia lo slogan “make the planet great again” – ora divenuto anche un sito – e Unione Europea e Cina si incontrano a Bruxelles ribadendo l’impegno sul clima. Una cosa dovrebbe essere chiara: la governance globale è a pezzi. Il fallimento del G7 di Taormina non è che l’ennesima dimostrazione dello stallo della cooperazione internazionale e della fine di un mondo unipolare in cui gli Stati Uniti guidano e tutti gli altri seguono. Non bisogna stracciarsi le vesti. Quel mondo, il mondo della cosiddetta pax americana, è stato tutto fuorché pacifico. Ma ora il rischio di piombare in un mondo anarchico, tagliato a misura sui testi di Hobbes, è reale. Un sistema in cui medie potenze lottano per ampliare la propria influenza – che sia nell’Est Europa o nel Mar della Cina – in un gioco a somma zero sempre a un passo dalla catastrofe. Mentre il mondo di oggi richiederebbe una governance globale come non mai. E questo va ben oltre la lotta ai cambiamenti climatici.
Basti pensare alla distribuzione della ricchezza. Il grafico ad elefante di Milanovic è la tabella di riferimento per mostrare il declino della classe media occidentale. Ma mostra anche qualcos’altro: la crescita esponenziale del famigerato 1%. Una concentrazione di ricchezza di tali dimensioni da creare profonde distorsioni ed inefficienze, come perfino il Fondo Monetario Internazionale ammette apertamente. Ma escludendo l’esproprio, la soluzione è nella tassazione progressiva. E qui sta il problema. Le multinazionali sono sempre più in grado di giocare gli Stati gli uni contro gli altri per ottenere sconti fiscali inimmaginabili per la piccola e media impresa. Non si tratta solo dello 0.005% che pagava la Apple in Irlanda, ma di una pratica che si allarga a una maggioranza delle grandi corporations – dai mobili Ikea ai dentifrici Procter&Gamble. Per nulla dire dei paradisi fiscali – che una ricerca recente reputa responsabili della crescita vertiginosa delle diseguaglianze. Solo una vera cooperazione internazionale può fermare tale pratiche. Ma ogni progresso sembra bloccato a livello europeo come globale. Perfino la timida proposta di una “web tax” presentata dal governo italiano al G7 è rimasta nel limbo dei buoni propositi.
Le città stanno assumendo un ruolo sempre più centrale. Spesso, come nell’esperienza delle “città santuario” negli Stati Uniti, anche in diretto conflitto con le autorità nazionali. E stanno costruendo reti internazionali sempre più elaborate. Il 10 giugno la città di Barcellona ha ospitato un summit globale, fearless cities, dove centinaia di esperienze municipali da tutto il mondo si sono impegnate precisamente su quei grandi temi che gli stati nazionali sembrano sempre più incapaci di governare
D’altronde si allunga sempre più la lista di quelle sfide che chiaramente oltrepassano i confini nazionali. La crisi dei rifugiati è destinata a rimanere, spinta anche dagli effetti nefasti dei cambiamenti climatici – con siccità e carestie previste in forte aumento nelle economie africane più vulnerabili. O, ancora, basti pensare alla necessità di regolare la sorveglianza online e l’utilizzo dei big data, un tema che la cancelliera Merkel spera di sollevare al prossimo G20 di Amburgo. Su questi e tanti altri temi, oggi come non mai sarebbe necessario un livello di globalizzazione politica che restituisca la capacità di governare la globalizzazione economica. Ma da dove iniziare?
Le città stanno assumendo un ruolo sempre più centrale. Spesso, come nell’esperienza delle “città santuario” negli Stati Uniti, anche in diretto conflitto con le autorità nazionali. E stanno costruendo reti internazionali sempre più elaborate. Il 10 giugno la città di Barcellona ha ospitato un summit globale, fearless cities, dove centinaia di esperienze municipali da tutto il mondo si sono impegnate precisamente su quei grandi temi che gli stati nazionali sembrano sempre più incapaci di governare. Azioni sul clima, ad esempio, con cooperazioni rafforzate per l’attuazione di standard ambientali ambiziosi. È più che retorica: il sindaco di New York, Bill de Blasio, ha appena firmato un ordine esecutivo che impegna la città al rispetto degli accordi di Parigi. O azioni sul tema dei rifugiati, con iniziative quelli Solidarity Cities o la rete di Città rifugio. È proprio da questo livello al di sotto degli stati nazionali che si può iniziare a pensare un nuovo strumento di governance globale. Non è qualcosa di marginale: il 70% degli europei vive in aree urbane. E poi c’è il livello superiore. Dove il carattere di cooperazione transnazionale dell’esperimento dell’Unione europea può rappresentare un prototipo importante per un nuovo mondo multipolare, in cui collaborare attraverso il consenso e lo stato di diritto per trovare soluzioni di mutuo beneficio.
È proprio da questo livello al di sotto degli stati nazionali che si può iniziare a pensare un nuovo strumento di governance globale. Non è qualcosa di marginale: il 70% degli europei vive in aree urbane
L’elezione di Emmanuel Macron – senza dimenticare la forte astensione che l’ha caratterizzata – arriva con forti aspettative per una riforma comprensiva dell’UE. Dopo le elezioni in Germania a settembre, il motore franco-tedesco si rimetterà in marcia, pronto a definire la prossima fase di integrazione. Non è necessariamente un bene. Perché non possiamo dimenticare che le politiche promosse dalla Germania di Angela Merkel nei lunghi anni di crisi europea – in primis la gestione del debito pubblico greco e il costante diniego a misure comuni di investimento – hanno portato l’Europa sull’orlo del collasso. Né possiamo farci troppo incantare dalla novità incarnata dal giovane presidente francese, il quale pare sostenere quelle stesse politiche di fondamentalismo di mercato – per usare l’espressione di Joseph Stiglitz – che per prime hanno portato allo scoppio della crisi. Senza un ripensamento critico – senza un New Deal in grado di rimettere al lavoro un continente e senza una forte democratizzazione dei processi decisionali – il percorso verso una maggiore integrazione rischia di essere una corsia prioritaria per la disintegrazione.
Ma è senz’altro un’opportunità. Perché l’Europa ha bisogna di maggiore integrazione e il nuovo mondo che si apre davanti ai nostri occhi ha bisogno di un esempio di governo multipolare e cooperativo. È reale il rischio di un ritorno a un mondo anarchico dove “la vita dell’uomo è solitaria, povera e breve”. Ma la crisi della governance globale ed europea ci offre anche l’opportunità di andare oltre un modello che, in realtà, non ha mai veramente funzionato. Le città e l’Europa sono al centro di questa sfida. Ce la giochiamo in questi anni.