C’è un segno più di cui si è parlato poco ultimamente, rispetto alle notizie sulla crescita del Pil migliore del previsto. È il segno più nelle quote di commercio mondiale detenute dal nostro Paese. Non si tratta semplicemente dell’aumento delle esportazioni o del miglioramento dei saldi commerciali, che comunque hanno toccato nuovi record recenti, ma proprio della porzione del commercio mondiale che vede l’italia come protagonista. È una percentuale che era quasi sempre calata a causa di motivi potremmo dire naturali, come il declino demografico rispetto ai Paesi emergenti e l’impetuosa e ineguagliabile crescita economica di questi ultimi. Non solo per l’Italia, ma soprattutto per l’Italia il destino sarebbe stato quello di rappresentare una fetta sempre minore dell’economia e del commercio mondiale, anche nei momenti di crescita.
E invece nel 2016 la quota di commercio totale del nostro Paese è passata dal 2,82% al 2,94%. Un incremento che ci riporta su valori non toccati dal 2010 e rappresenta l’aumento maggiore degli ultimi 10 anni.
Non solo, se prendiamo in considerazione la manifattura, che è un po’ la nostra croce e delizia, l’ambito per cui siamo ancora al secondo posto in Europa ma che ha subito il declino maggiore, le notizie sembrano ancora migliori: recuperiamo terreno per la prima volta dopo 10 e più anni, passando dal 3,37% al 3,44%.
Come noi anche gli altri Paesi europei. Il motivo è la frenata asiatica. Per la prima volta la Cina e non solo rallenta, e perde alcuni decimi di quote di mercato.
Nel 2016 la quota di commercio totale del nostro Paese ha avuto un incremento che ci riporta su valori non toccati dal 2010 e rappresenta l’aumento maggiore degli ultimi 10 anni. Il motivo? La frenata asiatica, ma anche la corsa alla sopravvivenza nella globalizzazione di molte aziende italiane, che le ha costrette a diventare competitive nel mondo
Probabilmente non è l’inizio di un’inversione di tendenza, ma è difficile che rivedremo crescite delle quote di mercato cinesi simili a quelle che si sono verificate tra 2007 e 2015, con un guadagno di ben 5 punti. L’economia di Pechino si avvia a diventare un’economia matura, con tutte le conseguenze che questo porta e che conosciamo bene in Europa.
Allo stesso tempo la corsa alla sopravvivenza nella globalizzazione di molte aziende italiane le ha costrette a migliorarsi e a diventare competitive nel mondo. Sì, perchè in realtà il dato che più colpisce è un altro: l’Italia risulta essere il Paese che più degli altri è riuscito a frenare il calo del valore medio unitario dei beni esportati.
In sostanza di fronte alla spinta al ribasso della concorrenza mondiale i prodotti italiani da esportazione sono quelli, in Europa, che sono calati meno di prezzo, senza perdere attrattività come si è visto. Rispetto al 2010 il calo è stato inferiore al 5%, contro uno superiore al 10% di Germania, Spagna, e delle media Ue.
E i risultati si vedono nei dati sulla ragione di scambio, ovvero sul rapporto tra il valore delle esportazioni e delle importazioni. Per l’Italia si è avuta una crescita dal 2010 superiore a quella tedesca e degli altri grandi Paesi del continente, dell’8,85%.
L’Italia risulta essere il Paese che più degli altri è riuscito a frenare il calo del valore medio unitario dei beni esportati. È una conferma della competitività dell’industria italiana, almeno di quella dedicata alle esportazioni
Chiaramente c’entrano le fluttuazioni dei cambi e nel nostro caso anche il calo del prezzo del petrolio, che importiamo. Ma certamente è una conferma della competitività dell’industria italiana, almeno di quella dedicata alle esportazioni.
Ed è una notizia di una certa rilevanza in un periodo in cui come non mai nel nostro Paesi si sta sviluppando una psicosi anti-globalizzazione. In cui fanno paura anche solo gli accordi commerciali della Ue con il Canada, un Paese ad altissimo reddito e costo del lavoro da cui non ci si può aspettare merce a prezzi stracciati.
Eppure a quanto vediamo è l’Italia che sta “invadendo” i mercati esteri più di quanto questi invadano l’Italia.
Siamo il Paese europeo con la minore propensione all’importazione, ovvero in cui il rapporto tra il valore delle importazioni ed il reddito nazionale è più basso.
Di fatto non c’è alcuna invasione di prodotti esteri, siamo i più chiusi.
Siamo tra i Paesi che più stanno approfittando della globalizzazione, e soprattutto dei suoi lati più favorevoli, eppure ce ne lamentiamo più degli altri. Probabilmente perchè il Paese nel complesso non riesce ad approfittare di tutto ciò. L’economia dedicata all’export è spesso separata dal resto, è concentrata, a volte anche geograficamente.
L’Istat mostra in quali la quota italiana di export è cresciuta maggiormente. Si tratta, nel caso italiano, di prodotti intermedi, in settori particolari e in in certo senso “tecnici”, materiali da costruzione in terracotta, tubi d’acciaio, generatori di vapore.
Siamo tra i Paesi che più stanno approfittando della globalizzazione, e soprattutto dei suoi lati più favorevoli, eppure ce ne lamentiamo più degli altri. Probabilmente perchè il Paese nel complesso non riesce ad approfittare di tutto ciò
Nei prodotti di consumo quotidiano, dallo smartphone alla T-shirt, ci serviamo di ciò che è prodotto lontano, spesso in altri continenti.
E quei settori competitivi che esportano sono così produttivi da utilizzare un numero relativamente piccolo di personale, spesso localizzato all’estero.
Questo tuttavia accade ovunque, si sa, ma in Italia più che altrove è l’economia interna che rimane incredibilmente indietro, la bassa occupazione impedisce ai salari di crescere, le attività interne commerciali, professionali, artigianali, quelle che hanno normalmente necessità di molto personale, sono colpite da inefficienze, nanismo dimensionale e monopoli di categoria. I governi allocano le risorse proprio laddove sono meno produttive per la crescita, e più per le messe di voti, tra gli anziani.
Come spesso accade il risultato del disagio è la caccia all’untore, e all’untore sbagliato, la globalizzazione in questo caso. Eppure l’evidenza degli ultimi anni dovrebbe mostrare anche ai più scettici che in realtà è proprio la globalizzazione che va imitata, o meglio quella necessità di competitività cui costringe le aziende che nel suo mare vasto nuotano.
E come vediamo in Italia siamo perfettamente in grado, se lo vogliamo, di non annegarvi, ma di utilizzarlo come gli antichi navigatori per arrivare lontano.
In Italia più che altrove è l’economia interna che rimane incredibilmente indietro: le attività interne commerciali, professionali, artigianali, quelle che hanno normalmente necessità di molto personale, sono colpite da inefficienze, nanismo dimensionale e monopoli di categoria. Come spesso accade il risultato del disagio è la caccia all’untore, e all’untore sbagliato, la globalizzazione in questo caso