Lo avrete certamente notato: di vacanze intelligenti non si sente più parlare. Non nelle rubriche di costume e società (dove però resiste l’imperativo categorico dei mesi caldi: ricordatevi di bere!), non nei GR sul traffico e nemmeno nelle conversazioni private sulle proprie vacanze.
Già due anni fa, La Stampa avvisava che le vacanze intelligenti non convenivano più, il turismo culturale era diventato di massa e tutti gli italiani professoresse democratiche (o figli di). Negli ultimi anni, è successo quello che succedeva nell’episodio “Vacanze intelligenti” (dal film “Dove vai in vacanza”) con Alberto Sordi e Anna Longhi (due fruttaioli semplicioni costretti dai figli plurilaureati a forzati tour per biennali, concerti d’avanguardia e ristoranti macrobiotici): la massa (il popolo?) ha sfiduciato l’idea della sublimazione, ha chiesto di parlare come si mangia, ha votato persone e non idee, ha individuato nell’establishment il proprio nemico e ha ceduto alla pancia, esattamente come, stremati e decisamente incazzati, Longhi e Sordi cedevano agli spaghetti.
La massa (il popolo?) ha sfiduciato l’idea della sublimazione, ha chiesto di parlare come si mangia, ha votato persone e non idee, ha individuato nell’establishment il proprio nemico
La reazione del nemico è stata, inizialmente, assai testarda: sovrapporre populismo a popolo, così che non ascoltarlo, il popolo, apparisse cosa buona, giusta e ragionevole. Oltre che testarda, quest’azione è stata fallimentare e il tentativo di porre rimedio sembra già destinato, se non al fallimento, al grottesco. I canali social del PD che fanno circolare anticipazioni del libro di Matteo Renzi, facendolo sembrare il diario di Matteo Salvini, sono un esempio piuttosto eloquente, ma solo rispetto a una parte del problema: parlare alla gente il linguaggio che si ritiene essere della gente.
Tutta la parabola politica di Renzi, tanto nei successi quanto negli insuccessi, è segnata da una affannosa simulazione dell’uguaglianza di intenti, vedute, parole, pensieri, opere tra l’uomo di potere e l’uomo della strada (con l’uomo di potere a servizio di quello della strada). Renzi non incarna, però, l’esigenza culturale di immersione nella massa, in ragione della quale non si parla più di vacanze intelligenti; non si dice più che la televisione fa schifo (al massimo si dice che è trash e che il trash ha un quid, una irresistibilità che gli vengono dall’adesione al vero – cioè al quotidiano – dell’essere umano); la periferia viene gentrificata; Zerocalcare va in televisione e dice a Tiziano Ferro che “noi ascoltavamo l’hardecore, ma i pischelli de periferia mo’ ascoltano solo te”. Soffermiamoci su questo: l’icona della militanza suburbana accetta l’enfant prodige del mainstream perché sa che piace alla folla – un certo tipo di folla, cioè quella delle aree metropolitane più disagiate. Il punto è che Tiziano Ferro piace anche ai privilegiati ragazzi di centro, alle folle benestanti e piace soprattutto agli intellettuali, che ci tengono parecchio a precisare di ascoltarlo e amarlo, così da chiarire che impegno e leggerezza non si auto-escludono (siamo ancora a questo).Tutta la parabola politica di Renzi, tanto nei successi quanto negli insuccessi, è segnata da una affannosa simulazione dell’uguaglianza di intenti, vedute, parole, pensieri
Nel 1976, Paolo Villaggio fa dire a Fantozzi che “La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca” per smascherare un’egemonia culturale che il nostro paese (e non solo) stava ereditando dall’ideologia comunista e alla cui base c’era l’idea che gli intellettuali dovessero farsi “ingegneri di anime” (Moravia racconta nel suo Diario europeo di aver sentito questa espressione al Cremlino, dove si ragionava della maniera più efficace di educare le masse non ad avere idee, bensì ad averne una precisa).
Oggi, completamente esautorato, l’intellettuale tenta di ristabilire la propria credibilità dimostrando al popolo di fare quello che fa il popolo, di potercisi confondere. Alla massa, tuttavia, la forzatura difficilmente sfugge. Nei giorni scorsi, nel quartiere Pigneto di Roma, luogo funestato dalla gentrificazione (un tempo era una borgata che Pasolini amava frequentare, ragione per cui il pasolinismo lo ha scelto come luogo d’elezione), su un murales di Carlos Atoche, street artist, è comparsa la scritta “Riqualificazione= guerra ai poveri”. I condomini del palazzo interessato hanno richiamato l’artista e hanno dato una festa aperta a tutto il quartiere per spiegare in che modo quel murales non andasse inteso come l’ennesimo tentativo di rimuovere dalle periferie la loro essenza, colorandone la vergogna. Il tema della street art è diventato spinoso da quando i writer vengono pagati dalle amministrazioni comunali e Bansky finisce nei musei, trasformando l’arte della contestazione, nell’arte della riqualifica commissionata. I vandali (se proprio dobbiamo chiamarli così) che hanno imbrattato il muro di Atoche, però, raccontano un’insofferenza che viene da un’evidenza ormai innegabile: l’immersione della massa non arriva dall’amore per la massa, ma dal desiderio di colonizzarla. Il serbatoio del consenso sta nelle zone del degrado? Allora andiamo ad abitarle e rendiamole a immagine a somiglianza della nostra idea di luogo virtuoso: facciamo la “guerra ai poveri”, senza che sembri una guerra.C’era una volta l’idea che gli intellettuali dovessero farsi “ingegneri di anime” (Moravia racconta nel suo Diario europeo di aver sentito questa espressione al Cremlino, dove si ragionava della maniera più efficace di educare le masse non ad avere idee, bensì ad averne una precisa).
Oggi, completamente esautorato, l’intellettuale tenta di ristabilire la propria credibilità dimostrando al popolo di fare quello che fa il popoloAnna Momigliano ha scritto su Rivista Studio che non sono più i parametri economici a stabilire l’appartenenza a una elite, bensì la sensibilità etica ed estetica: citava uno studio pubblicato dalla Princeton University Press, a fine maggio, firmato da una sociologa e urbanista, Elizabeth Currid-Halkett. Per questo motivo, scrive Momigliano, nel quartiere milanese in cui abita le succede di notare che i consumi culturali tra centro e periferia non siano in fondo così diversi.
Conclude, dopo un ragionamento assai articolato e complesso, che far parte di un’elite è ormai un’illusione. È interessante come si manchi di rilevare che tutto questo avvicinarsi alle masse, ai negletti, agli umili, tutto questo recuperare il basso dal basso, nasconda lo sprezzo che verso di essi si prova. Sprezzo ben colto dai vandali del Pigneto. Intanto, la folla, un po’ spergiurata e un po’ coccolata, procede per conto suo e fa cose bellissime, tra cui la più importante è dimostrare l’incompatibilità tra popolo e populismo. A giugno, alla fine di un incontro di box, un pugile ha attaccato alle spalle il suo avversario: il pubblico è salito sul ring per difenderlo. Ci sono stati video virali assai meno significativi sui quali si sono spese molte parole: su questo, che esemplificava bene con quanta spontaneità la difesa del giusto scatti nelle persone, nemmeno una riga.
La sera del 13 luglio, i volontari di Retake Roma hanno organizzato la prima “Notte sbianca”: dalle sette alle undici hanno camminato per le vie del centro, liberandole da immondizia, graffiti, adesivi. Sul sito del gruppo è così definito il cittadino retaker: “chiunque ambisca a vivere in una città in cui regnino legalità, rispetto delle regole, senso di comunità e si dedica attivamente al recupero di spazi e beni pubblici”. Mentre politici, intellettuali e operatori s’affannano ancora a capire come educare le masse, responsabili delle peggiori sciagure, dall’anti-vaccinismo all’elezione di Trump (questo serve sottolinearlo in modo da apparire la sola alternativa alla barbarie), le masse si rimboccano le maniche. Nonostante tutto e fregandosene di ribaltare il rapporto tra uomo della strada e uomo di potere.