Che giallo banale, “Rondini d’inverno”. Se volete letteratura (anche sotto l’ombrellone) riscoprite Gadda

Il bastone e la carota: due libri a settimana, uno raccomandato e uno sconsigliato.Trama scontata, linguaggio ottocentesco: al posto degli insipidi giallisti italiani, concedetevi il lusso di leggere “La cognizione del dolore”, il più grande romanzo del Novecento italiano. Saranno vacanze spese bene

Il bastone. Eureka, ho capito perché Rondini d’inverno vende così tanto. Da una parte perché è il canonico ‘giallo sotto l’ombrellone’, è ovvio, ma dall’altra perché il lettore italiano medio – che è medio-basso tendente ai bassifondi letterari – vuole stare all’ombra del già visto, già detto, già sentito. Il lettore italiano medio gradisce leggere ciò che ha già letto migliaia di volte, vuole essere rassicurato, come lo scarafone mal cresciuto che ha bisogno di sentirsi dire da mammà quant’è bello ogni mattina che Dio mette in cielo. Per questo, Rondini d’inverno va dissezionato chirurgicamente: vi scopriremo allineati, tutti, vergognosamente, i cliché della narrativa ‘di genere’. Partiamo dalla vicenda. Napoli, 28 dicembre del 1932, teatro Splendor. Un divo di allora, Michelangelo Gelmi, durante la scena madre dello show, spara alla moglie, attrice divina che comincia a inorgoglirsi di rughe, Fedora Marra. La pistola, però, ha il colpo in canna, e la diva muore per davvero, in scena, in un tripudio di orrore e sangue. Sostanzialmente, fino a pagina 67 non succede niente, Michelangelo Gelmi è ancora lì che piagnucola, “l’ho uccisa, ma non sono stato io”. Duecento pagine dopo, evviva, scopriamo che Fedora, terrorizzata dall’incombere della vecchiaia, ha il toy boy d’ordinanza in camerino, più il marito beve più lei si fa trombare. “Gelmi aveva ammazzato la puttana, perché puttana era, brigadie’, e della peggiore specie”, sintetizza il fattaccio la giovane ballerina che è la chiave di volta del giallo, francamente banalotto, il cui movente, guarda un po’, è la gelosia.

De Giovanni, che adopera una lingua che fa sembrare David Copperfield un romanzo d’avanguardia e Charles Dickens più alternativo di David Bowie e di Vasco Rossi, manco girassimo ancora in calesse, con parrucca in testa e pisciatoio in giardino – sentite come descrive Gelmi: “chioma rada, tinta di un nero profondo, un dito di cerone sul viso per nascondere i capillari violacei del bevitore abituale”, d’altronde “il costume da popolano non riesce a celare una certa pinguedine”, roba soporifera, da ninnananna sulla brandina – scimmiotta la narrativa di genere, qui sta il danno. Il suo commissario Ricciardi pare il parente tonto di Montalbano, con aiutante che mastica il dialetto napoletano e sa menare le mani, il brigadiere Maione, i superiori che rompono le scatole e i consueti problemi sentimentali per far presa sul gentil sesso. Il romanzo, ripetitivo, logorroico – un buon ‘giallo’ deve essere sapido, schietto, sagace, ma forse De Giovanni s’è messo in capa d’essere uno scrittore vero, poveri noi – è scandito da una sviolinata di funerea ovvietà onirica – “i sogni ti illudono e ti fanno fare fesserie”; “il sogno è una perversione, perché ti illude sulla sua realtà” – e cade nel luogo comune del cibo, dacché un buon investigatore deve andare all’ingrasso e un buon piatto non si nega a nessuno. Qui ci sono, pigliate appunti, “i cinguli cu’ l’alici, pasta lunga tagliata in pezzi ottenuta appunto cingulianno, cioè rotolando sotto le mani l’impasto di acqua e farina, e condita poi con acciughe conservate nell’olio vecchio” e “il baccalà fritto” e le “zeppole salate” e “i broccoli soffritti, con aglio, olive nere e acciughe”. Alla fine del romanzo, comunque, tra i Ringraziamenti, esercizio di audace leccaculaggio, De Giovanni, dopo aver onorato amici, cugini, editore, agente letterario etc., vi consiglia anche un paio di ristoranti dove si mangia bene, altro che pubblicità occulta. Se il romanzo non vi ha sufficientemente mortificato, accontentatevi delle musiche di sottofondo e ascoltatevi Rundinella oppure Armando Gill o Carlos Gardel. L’unica trovata buona di De Giovanni, va detto, è del tutto sputtanata. Il commissario Ricciardi dovrebbe agire in epoca fascista. Beh, nessun indizio – tranne le quinte, appena abbozzate, fasulle, di polistirolo estetico – ci suggerisce che l’Italia sia guidata da Benito Mussolini (che non è mai nominato, non sia mai) e che governi il fascismo – citato, quasi per caso, a pagina 104. Nostalgici? Macché. Trattasi di coerenza narrativa. Che qui manca del tutto. Piuttosto, abbiamo nostalgia dei bei libri, dei buoni ‘gialli’, quelli che andavano giù come un sorso di gazzosa.

Maurizio de Giovanni, Rondini d’inverno, Einaudi, pp. 368, euro 19,00

Il lettore italiano medio gradisce leggere ciò che ha già letto migliaia di volte, vuole essere rassicurato, come lo scarafone mal cresciuto che ha bisogno di sentirsi dire da mammà quant’è bello ogni mattina che Dio mette in cielo. Per questo, Rondini d’inverno va dissezionato chirurgicamente: vi scopriremo allineati, tutti, vergognosamente, i cliché della narrativa di genere.

La carota. I ‘giallisti’ all’italiana, nostalgici del periodo in cui esistevano i feuilleton e il cinema era ancora allo stato aurorale, alchimia di luci e di ‘effetti speciali’, sono i galletti della letteratura nostra, in cerca di un posto al sole sulla vette delle classifiche di vendita. D’altronde, l’unica ragione ragionevole per scrivere un ‘giallo’ è vendere – lo sapeva anche Arthur Conan Doyle, che mal sopportava la sua creatura, Sherlock Holmes. Il più grande, il solo, l’unico giallista all’italiana resta Carlo Emilio Gadda. Che nel 1957, per Garzanti, se ne esce con Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, facendo quel che sa: sfottere i ‘generi’, scombinarli, esploderli. Il giallo, per altro – alla faccia di De Giovanni – con l’eroicomico ‘Ciccio’ Ingravallo, è ambientato nella Roma fascista, anno di grazia 1927. E qui viene il punto centrale di tutto. Lo so, lo so che l’editoria è una impresa che fa libri come ferri da stiro, e deve andare avanti, fatturando, verso il sol dell’avvenire. Eppure, allo scrittore – se è tale e non è uno squinternato baciapile – tocca fare tre passi in dietro, anche dieci. Insomma, nel suo piccolo uno scrittore non può pretendere da sé qualcosa che sia da meno di un romanzo di Gadda. E un lettore idem. Altrimenti, è la cacofonia dei cafoni e la fiera dei cialtroni. Ecco, allora occorre che scrittore e lettore, insieme, a passo di tango, facciano tre passi indietro.

A fine agosto Adelphi promette di mandare in libreria La cognizione del dolore, che è forse il romanzo più grande del Novecento italiano, incompleto come tutte le cose grandi, secondo la cognizione critica di Paola Italia, Giorgio Pinotti e Claudio Vela. Ecco, occorre, in silenzio, mettersi a studiare Gadda, giusto, così, per aggiornare la lingua e crearne una nuova – il romanzo è tra noi dal 1963, ormai è un reperto fossile – e per capire che il romanzo, in sé, è la “lettura consapevole della scemenza del mondo o della bamboccesca inanità della cosiddetta storia, che meglio potrebbe chiamarsi una farsa da commedianti nati cretini e diplomati somari”. Del resto, dei cosiddetti ‘giallisti all’italiana’ ci libereremo presto. Basta assumerli a scriver fiction noir per la tivù. Non vogliono altro che applausi, fama e red carpet, loro. Della letteratura gl’importa mica.

Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, Adelphi, pp. 382, euro 24,00

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