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Basta prendere “Live in Belgium 1965” su youtube e sono tutti lì al massimo dello splendore. In cravatta (uso jazz finché Miles Davis non rivoluzionò il guardaroba coi caffettani, i braccialetti, le collanine). Jimmy Garrison ha la giacca che gli fa sudario intorno al contrabbasso, McCoy Tyner tratta tasti bianchi e neri con l’aria dell’operaio che fa combaciare due assi di legno a pedate. Elvin Jones sorrisi e smorfie, incurante di quello che succede sotto, ai tamburi. Guarda molto Trane. Trane guarda molto lui. Coltrane è già inchiattito, con una piega di ciccia che gli spunta dal colletto bianco, e gli occhi non strabuzzano nemmeno troppo dalle orbite. Sudano molto tutti. Si scambiano sguardi.
Garrison spinge il suo walking bass in movenze da trombone su armonie allargate. Jones fa quello che farebbe qualsiasi percussionista di schietta cultura africana: mantiene la scansione mentre stravolge il metro, anticipando e dilatando gli accenti. È la poliritmia, nella quale il tempo è un po’ numero del movimento e un po’ distentio animi, un po’ Aristotile e un po’ Sant’Agostino. Tyner schiva armonie tonali e intervalli di terza come si eviterebbe una cacca di cane in istrada e risolve tutto con intervalli sospesi e armonia modale. Le gerarchie occidentali tra le voci dell’accordo sono corteggiate, eluse, attraversate, sforacchiate.
C’è il free jazz anche: il linguaggio del jazz mainstream di oggi, di adesso, è già tutto lì. Nel quartetto “classico” di Trane. C’è il bebpop, c’è il modale, c’è il suonare rimbalzandosi addosso, c’è la spessa linea blues che dagli hollers dell’800 arriva intangibile al free e al rap.
E poi c’è Coltrane, che comincia il concerto con un duetto abbastanza forsennato col batterista, e ogni volta che entra in assolo è un via di mezzo tra un’eruzione vulcanica (e cutanea) e un’enciclopedia. Fa grugnire, stridere, strillare, garrire il sax e sussurra, anche, e di base non smette mai di suonare nemmeno quando smette (spesso finito l’assolo scendeva dal palco e continuava l’assolo per conto suo, dormiva col sax, suonava sempre), con l’ambizione (e il risultato) di mettere tutto in ogni esibizione, tutte le note e le combinazioni. Una musica ontologicamente vorace. Incessantemente e ferocemente creativa -Non tutti sono “brave” come Lester Bangs, che faceva colazione la mattina ascoltando Ascension- con vene violente, al limite dell’insopportabilità.
Coltrane non smette mai di suonare nemmeno quando smette (spesso finito l’assolo scendeva dal palco e continuava l’assolo per conto suo, dormiva col sax, suonava sempre
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Eppure è stato per anni e anni considerato un mediocre. Uno bravo ma di fila. Un esecutore, di rythm & blues e di be bop. La vita di Coltrane (Hamlet, north carolina 23 settembre 1926 – New York, 17 luglio 1967, lunedì saranno 50 anni dalla morte) è stata raccontata e ri-raccontata, i tour con Earl Bostic, con il quale ha appreso i gimminick (fischi e grugniti) che divertivano il pubblico della musica da ballo di allora. La militanza con i maestri del be-bop: Dizzy Gillespie e Miles Davis di sfuggita. Coltrane non emergeva. Un po’ per introversione, dato che era e fu sempre timido, modesto, riservato. Un po’ per eroina (uso jazz anni 40-50, più di giacca e cravatta), un po’ perché aveva visto così tanta gente licenziata per aver cercato di essere originale che non aveva voglia. «Mi limitavo a suonare quello che mi dicevano di suonare» raccontò più tardi in un’intervista.
Nel 1952 tra l’altro aveva preso una meravigliosa batosta da Sonny Rollins, sul palco con Davis a NY. Il confronto tra i due non fu piacevole “Sonny fece letteralmente cacare sotto Trane” ricorda Davis nella sua autobiografia. E aggiunge che in giro gli altri musicisti “Dicevano che non suonava niente”.
Nonostante tutto, nel 1956, Davis si fece convincere a richiamare Coltrane, anche perché aveva perso Rollins. Il rapporto tra i due era piuttosto singolare.Ecco come lo ricorda Davis: “Trane continuava a fare domande su quello che doveva suonare. Cazzate”.
Ed ecco come lo ricorda Coltrane: “Miles è un tipo molto bizzarro, parla poco e capita molto raramente che discuta di musica. Si ha sempre l’impressione che sia di cattivo umore e che ciò che gli altri fanno non lo interessi e non lo tocchi. In queste condizioni è molto difficile sapere con precisione cosa si deve fare, ed è forse per questa ragione che mi sono messo a fare ciò che volevo”.
Pedagogia dell’abbandono. Ma Davis, nel suo modo antipatico, era un formidabile allevatore di talenti. E tra il 56 e il 57 Coltrane sbocciò. Fiorì. Nel modo più inaspettato. Ci fu anche la disintossicazione. E ci furono anche gli incontri con Theolonius Monk, “Un architetto musicale di primo ordine” come ricorda lo stesso Coltrane. Che andava a casa di Monk, lo buttava giù dal letto, e lo costringeva a suonare arpeggi, scale, intervalli.
Il mediocre che non suonava niente si stava trasformando in un nerd cosmico, che voleva imparare tutto, sapere tutto, suonare tutto. Allo stesso modo ci fu in lui, figlio di un pastore metodista, un risveglio religioso. Una sua sola frase a riguardo. Quando lo attaccarono per l’eccesso di furia, di ferocia, di rabbia della sua musica rispose sul Downbeat con una perfetta parafrasi di A love supreme (per alcuni il suo capolavoro): “La musica per me è una delle maniere di dire che l’universo in cui viviamo, e che ci è stato dato, è grande e bello”.
Quando lo attaccarono per l’eccesso di furia, di ferocia, di rabbia della sua musica rispose sul Downbeat con una perfetta parafrasi di A love supreme (per alcuni il suo capolavoro): “La musica per me è una delle maniere di dire che l’universo in cui viviamo, e che ci è stato dato, è grande e bello”
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E questo è il lato “teologico” di Coltrane: il suo (ma anche probabilmente tutta la parabola delle musiche popolari, jazz incluso) è un ritorno a un’ origine, a una complettezza, a una divinità. E forse sarebbe troppo facile citare Carmelo Bene e la sua Phonè, la voce che perde prima i significati delle parole, poi l’articolazione, e diventa suono, e infine rumore: appunto dal greco phonè. Origine.
Le tappe di questa corsa verso il rumore originale. Coltrane con Giant Steps (1960) spinge avanti la rivoluzione del be bop, suona “dentro” gli accordi, ma “oltre” gli accordi. Usa le modulazione per terze maggiori per riscrivere (“coltranizzare” si dice in gergo) temi conosciuti tra i jazzisti, e piegare ancora di qualche grado l’armonia occidentale a fini cromatici, inventando un vocabolario armonico oggi usato da tutti i solisti.
Poi riduce il numero di accordi, sperimenta sempre più il jazz modale (con Davis), spinge ulteriormente in direzione della melodia e del suono, mettendo sempre più da parte le gerarchie tra le note. Risuona Greensleves, classico del folk inglese , riduciendola a un accordo solo. Prende un costumato valzer da fischiettare sotto la doccia come My favourite things, e lo trasforma in una salmodia perfino delirante, sempre su un accordo solo.
Poi, dopo aver ascoltato Ornette Coleman, arriva il free. Con Eric Dolphy e il suo feroce clarinetto basso, Coltrane assume in pieno l’eterofonia che fa parte del jazz fin dalle origini e la usa come skeleton key per fare a pezzi l’idea stessa di composizione. L’ armonia è diventata un colabrodo. La composizione liquidata. La struttura non c’è più, o è ridotta all’astratta formularità del tema.
Tutto tende verso il suono. O a un dialogo tra musicisti che bordeggia uno iocundus fragor originario. E siamo as Ascension, ma attenzione: diversamente da tutte le avanguardie occidentali, che hanno trafficato con il caos, con l’insensato, con assenze più o meno cruente e con carne morte e diavolo, questa corsa verso l’inarticolato non è sovvertimento di un bel niente. Non è noir. È bianco. È rispecchiamento del cosmo. È origine delle cose.
Diversamente da tutte le avanguardie occidentali, che hanno trafficato con il caos, con l’insensato, con assenze più o meno cruente e con carne morte e diavolo, questa corsa verso l’inarticolato non è sovvertimento di niente. Non è noir. È bianco
E infine si può telefonare al critico jazz Gianfranco Salvatore, e beccarlo che esce da una riunione ed entra in una riunione e quindi non ha tempo. Ma si ferma e detta: «Dopo aver superato qualsiasi limite tecnico ed espressivo, a Coltrane non resta che proiettare nello spazio musicale puri flussi energetici». La versione “coltranizzata” dell’Armonia del mondo, ecco. Magari Lester Bangs non aveva tutti i torti. Ci si può svegliare la mattina e fare colazione con Ascension, senza sputare dal naso latte e Nesquik.