In una società fortemente prestazionale come la nostra la depressione rappresenta ancora un grande tabù, ma allo stesso tempo esercita, se non fascino, sicuramente un forte interesse. Lo dicono le ricerche di Google, oracolo universale dei nostri tempi, che ha sulle spalle la responsabilità di fornire risposte che a volte sono decisamente delicate, per esempio quando c’è in ballo la salute mentale degli utenti: come si capisce di essere depressi? Cosa si prova davvero durante la depressione?
Probabilmente il tentativo di autodiagnosi è il movente più comune delle ricerche, ma un’altra ragione può essere – e sarebbe un indicatore molto positivo – riuscire a empatizzare con qualcuno che si conosce – un parente, un amico – affetto da questo disturbo.
A bisogno corrisponde offerta: la Rete infatti trabocca di articoli, articoletti e test che si limitano a elencare la sintomatologia già schematica e sbrigativa del Manuale Diagnostico Statistico (DSM V) o vantano di offrire – con titoli da imbonitori, per non dire da click bait – la descrizione PERFETTA di cosa prova una persona depressa.
Abbiamo così le “10 storie che descrivono perfettamente la depressione”, “La 19 migliori citazioni che spiegano perfettamente com’è la depressione”, le “23 fotografie che catturano perfettamente cosa si prova quando si ha la depressione”. Queste ultime, realizzate di sicuro con buone intenzioni, rappresentano soggetti vagamente gothic glamour, come una scala che si perde nella nebbia, una dea Khali sotto un lenzuolo che allunga le sue braccia tentacolari verso il malcapitato depresso, un tizio con volto fasciato che dorme raggomitolato, stringendo un barattolo con dentro una maschera, e via dicendo. Apprezziamo lo sforzo, ma no.
Ci sono anche gli spiegoni-ricette di WikiHow: “Come capire se sei depresso (in 17 passaggi)” e “Descrivere la depressione”. Quanto ai test, tra ipocondria e approssimazione, più che un’idea molto vaga non riescono a dare. Come si capisce allora di provare qualcosa che va ben oltre la fisiologica tristezza o un comune periodo di demotivazione?
Concentrarsi sempre e solo sulla depressione maggiore rischia di mettere in ombra le altre tipologie, perché essere depresso non significa necessariamente non avere mai un momento di gioia
Innanzitutto, per quanto l’autodiagnosi sia un sempre un passaggio utile, la diagnosi vera e propria – sembra banale dirlo – spetta sempre a un professionista del settore. Non solo: anche l’opinione di chi ci sta vicino è molto indicativa, perché non sempre è facile guardarsi da fuori con obiettività e alcuni sintomi, come la perdita di entusiasmo nei confronti dei propri interessi (anedonia), sono più graduali e difficili da cogliere di quanto si penserebbe.
La depressione maggiore (quella che intendiamo normalmente quando parliamo di depressione: la più radicale, intensa e con una durata di massimo sei mesi) è un disturbo dell’umore il cui sintomo principale è proprio l’alterazione del tono dell’umore, che tende a precipitare verso il basso. Ma concentrarsi sempre e solo sulla depressione maggiore rischia di mettere in ombra le altre tipologie, perché essere depresso non significa necessariamente non avere mai un momento di gioia.
Esiste infatti la depressione “a bassa intensità”, che in genere passa più facilmente inosservata perché l’umore varia: per giorni ci si può sentire solo moderatamente depressi e possono esserci dei periodi in cui l’umore è perfettamente normale. Rispetto alla depressione maggiore i sintomi sono più lievi, in compenso si tratta però di un disturbo cronico, che dura almeno due anni, con l’effetto di dare al malato l’impressione di essere sempre stato depresso. O che si tratti semplicemente del suo carattere o del suo modo di affrontare la vita. Per questo chi ne soffre chiede aiuto più difficilmente, e anche quando è consapevole del problema ricorre spesso a sistemi di automedicazione (alcol, droghe, farmaci a portata di mano).
Simile è la depressione ad “alto funzionamento” (quella di cui soffriva Sylvia Plath): la più difficile da riconoscere, perché si nasconde dietro una vita piuttosto normale in cui lavoro e affetti vengono influenzati ma non del tutto compromessi.
Evitando i fin troppo facili elenchetti di sintomi, si potrebbe dire che le avvisaglie più indicative – osservabili in se stessi o negli altri – sono un generale rallentamento della produttività (non solo lavorativa, ma in ogni attività della vita, anche quelle considerate piacevoli) e un forte crollo di motivazione (e in generale di interesse nei confronti della vita). Come già spiegavamo, è la volontà stessa a venire meno, ed è per questo che claim semplicistici che promettono miglioramenti grazie a qualche banale slogan motivazionale non solo non funzionano, ma fanno più danno che altro, perché finiscono per alimentare un altro dei sintomi comuni della depressione: il senso di colpa.
Evitando i fin troppo facili elenchetti di sintomi, si potrebbe dire che le avvisaglie più indicative – osservabili in se stessi o negli altri – sono un generale rallentamento della produttività (non solo lavorativa, ma in ogni attività della vita, anche quelle considerate piacevoli) e un forte crollo di motivazione
Accantonando l’esigenza più puramente diagnostica e concentrandosi su quella descrittiva, su “Mighty”, magazine che si occupa di salute mentale, John Anson ha provato a descrivere lo stato depressivo con un esperimento chiamato “la metafora del bagno”.
Il post è stato condiviso più di 20.000 volte su Facebook, e la maggior parte dei commenti riconosceva la metafora di Anson come una delle descrizioni più accurate che gli utenti avessero mai letto sull’argomento. E infatti, giocando a livello intuitivo, la metafora funziona, perché ha il pregio di concentrare l’attenzione sul diverso sguardo sul mondo cui la depressione ti costringe.
E forse l’intuizione, la sintesi è l’unico livello che si può adoperare per raccontare uno stato d’animo così complesso.
https://www.youtube.com/embed/AdGqbLfMvlg/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-ITConcentrandosi sull’anedonia (l’incapacità di provare interesse per attività comunemente piacevoli), un ben più irruente Lev Tolstoj ha invece scritto ne La confessione: «Se non oggi, la malattia e la morte arriveranno domani (anzi, si stanno già avvicinando) per tutti, per me, e non rimarrà nulla tranne il tanfo e i vermi. Ciò che ho fatto, nel bene e nel male, sarà presto o tardi dimenticato, e io stesso non sarò più. Perché allora fare qualcosa? Come può qualcuno capire tutto ciò e riuscire a vivere? È questo che è incredibile! È possibile vivere solo finché la vita ci inebria; una volta sobri non possiamo fare a meno di vedere che è tutta un’illusione, una stupida illusione! E non c’è nulla di divertente o spiritoso; è solo crudele e stupido».
La “vita da sobri” è per lui la vita della persona depressa, che senza l’ebrezza dei piaceri, di cui non è più capace di godere, si ritrova davanti, nuda e cruda, «l’infinita vanità del tutto». Oltre ad attribuire alla depressione una forte componente conoscitiva/veritativa, Tolstoj, come Anson, mostra come ciò che distingue i depressi dai non depressi sia il modo di vedere il mondo, in un caso filtrato dal tepore dell’acqua o dai piaceri della vita, nell’altro lasciato privo di difese, come se mancasse uno strato di pelle.
Ciò che distingue i depressi dai non depressi è il modo di vedere il mondo, in un caso filtrato dal tepore dell’acqua o dai piaceri della vita, nell’altro lasciato privo di difese, come se mancasse uno strato di pelle