“Il pianeta delle scimmie” vale il prezzo del biglietto solo per l’aria condizionata al cinema

È l'ultimo episodio di una delle saghe più potenti e resistenti della narrativa cinematografica americana, lo ha diretto ancora Matt Reeves ed è un tentativo molto ardito di mischiare linguaggi e generi, peccato sia fallito proprio male

Si intitola The War, lo ha diretto Matt Reeves, è l’episodio che chiude il mazzo di una delle saghe più potenti e longeve della cinematografia americana, il Pianeta delle scimmie, ma è anche un arditissimo esperimento di sincretismo di generi, di linguaggi, di toni, di tecniche all’avanguardia. È proprio un peccato che sia un esperimento fallito, e fallito male.

15 anni dopo che una febbre incurabile ha decimato l’umanità, sulla Terra lo scontro tra specie sembra totale. Da una parte una tribù di scimmie guidata dal carismatico Cesare, dall’altra quel che resta dell’homo sapiens, ovvero un esercito di americani presi di peso da una collina del Vietnam anni Settanta e trasferiti su una collina identica a sparare a delle scimmie armate di lance.

La scena iniziale è magistrale e fa da subito ben sperare: trasuda epica, la violenza è senza quartiere, la bussola del buono-cattivo è piacevolmente impazzita e lo spettatore si sfrega le mani da tanta potenzialità. Ma dura poco, perché dopo la decina di minuti di botte da orbi, lance che attraversano soldati e scimmie che esplodono, la guerra si eclissa e parte un pippone maestoso fatto di sguardi malinconici tra scimmie che borbottano e di dialoghi improbabilmente maieutici — di quelli funzionali a portare avanti la trama senza fare la minima fatica drammaturgica — tra personaggi piatti, soldati unidimensionalmente pazzi da legare.

Matt Reeves, che ha curato anche la sceneggiatura, ci prova ad ogni angolo a mettere sotto il naso dello spettatore qualche ammicco ai classici, da Apocalypse Now fino a The Great Escape, ma il risultato non si schioda dallo zero a zero, i personaggi diventano rapidamente macchiette e mentre quello che doveva far la parte del colonnello Kurz di turno — un imbolsito Woody Harrelson — ricorda molto di più lo scalcagnato Diacon, il cattivone di Waterworld impersonato da Dennis Hopper (che per quella parte vinse un Razzie Award al peggior attore non protagonista, giusto due anni dopo lo stesso Harrelson), entra persino in scena Bad Ape, una scimmia maldestra nata in cattività e vestita come Fantozzi, un puntello comico che sarebbe anche interessante se non fosse buttato nella mischia di una guerra interspecie dopo una catastrofe planetaria.

Si sarebbe potuto cercare di salvare per i capelli questo film parlando del tentativo di Reeves di incrociare generi diversi, dal war movie al western al prison break, se almeno da questo versante ci fosse riuscito. E invece no, anche da questo punto di vista la toppa è grossa e il peccato ancora più grave, perché qualche carta in mano Reeves dimostra di averla, ma se le gioca proprio male.

Toppa il versante war movie, per esempio, lasciato evaporare dopo la prima bellissima scena e ripreso nel finale con una scena gloriosamente pataccara — non spoilero, ma c’è da ridere —; toppa il versante western buttandolo su un noioso inseguimento da parte di quattro scimmioni e una bambina muta che vale solo per qualche inquadratura che effettivamente ti fa venire voglia di sellare un mustang; e toppa pure il versante prison break, imbastendo un minestrone oscillante tra l’improbabile rocambolesco e il prevedibile stereotipo.

Ma c’è anche un ulteriore genere che Matt Reeves toppa in maniera disarmante, ed era quello più importante, il distopico post apocalittico. Un genere che oltre a far da ovvia cornice, viene anche arricchito di un ulteriore elemento — una strana malattia che colpisce il linguaggio degli uomini e lo fa regredire — un elemento che poteva essere geniale e utile come un jolly joker in una partita di scala quaranta, ma che è stato scartato come il peggiore due di picche, facendo pensare che i milioni investiti in effetti digitali sia stato risparmiato grazie a tagli a mannaia su chi doveva occuparsi di avere cura che la struttura narrativa, i personaggi e i dialoghi di questo film fossero quantomeno non ridicoli.

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