Uno dei capitoli più singolari della “questione meridionale” (credevate di scamparvela, e invece no, non è mai finita, la questione meridionale è viva e lotta insieme a noi) è quello relativo a Sud e sesso. Per molti il Sud è un luogo esagerato ormonalmente/ disagiato sessualmente, dove vige una amara cappa di perbenismo cattolico-meridionale. Una propaggine in terra italiana del mondo del burqa, un posto in cui l’oppressione patriarcale si manifesta in sensi di colpa, nascondimenti a cosce strette, due santi sposi che vanno a letto con la camicia da notte col buco, un esercito di padri Restrepo lì pronti a intercettare e sanzionare ogni palpito meno che casto. Non parliamo poi di omofobia.
Si tratta ovviamente di stereotipi (= cazzate pigre), proiezioni (=cazzate presuntuose) e orientalismi (= cazzate culturalmente narcisiste) che gli antropologi hanno da tempo fatto a pezzi, per esempio evidenziando che nella cultura popolare (del Sud e del Nord) la sessualità è molto più libera di quanto avvenga nella cultura borghese (del Nord e del Sud). Che alcuni scrittori hanno smontato più sottilmente, con la forza delle loro narrazioni. Che l’umile cronista si accontenta di nuancer sulla base di un pugno di storie passate da un bar della Locride. Debunkate, con cura, e con qualche nome cambiato per necessità e discrezione.
MISURE
Conventi è strutturato come il Pugatorio: una collina con una strada che sale su a spirale fino alla porta medievale del paese. A fianco della strada c’è un muro in calcestruzzo fatto all’epoca di Mussolini, la cui larghezza è stata accuratamente misurata dal cronista: 28, 7 centimetri. Allo scopo di determinare la lunghezza del pene (a riposo) del signor Cutrupi.
Testimoni oculari raccontano che quando il signor Cutrupi urinava appoggiando il pene sul bordo del muretto, riusciva con la sua lunghezza a superarne la larghezza. E ci sono aneddoti che l’accurato cronista ha verificato, non si trattasse di leggende metropolitane. Un pomeriggio d’estate al bar di Pasquale, il signor Cutrupi disse a Paolo: “guarda che c’è qua”, e aveva il pene legato alla coscia con una cordicella. Guardando uno spettacolo di spogliarello, con altri uomini del paese, il signor Cutrupi si era messo il cappello sul pene. Dopo poco i presenti nella stanza notarono il copricapo che si muoveva e levitava nell’aria.
Il pene del signor Cutrupi per decenni è stata una delle fonti di divertimento del paese. Non pettegolezzo ma esplicita comicità. Ne parlavano vecchi, donne, e i bambini che si aggiravano a frotte per il paese, scalzi, sveglissimi, sboccatissimi chiedendo soldi a chiunque arrivasse in macchina, giocando con frusta e trottola. Bastava fermarne uno di cinque anni prendendolo per il collo e gli chiedergli: “che gli fai tu alle donne?” Risposta: “‘nciu mentu ‘nto picciuni”, “glielo metto nella f…”. Sul pene del signor Cutrupi sono state composte canzoncine e filastrocche. Il pene del signor Cutrupi è un elemento essenziale dell’immaginario sessuale di Conventi.
OMOSESSUALITÀ
Piazza del paese, sette di sera di un venerdì dell’era pre smartphone. Passeggio. Struscio. Gruppo di liceali ambosessi sulle panchine. Arriva lui Antonio, si struscia contro un ragazzo, gli mette le mani sul pacco. Il tipo si ritrae, e lui Antonio si gira verso la compagnia: “Non voli u futti, è ricchjiuni”. Non vuole fottere è frocio. Vale a dire: si irrigidisce se gli si fanno avances, quindi è un criptogay. Chi non voleva essere considerato omosessuale doveva farsi toccare tranquillamente, e ricambiare.
PEDOFILIA
A Ferroni c’era un professore di scuole medie che, si diceva, avesse tentato approcci con qualcuno degli allievi. All’ora del caffè un gruppo di ragazzi nervosi che passavano la giornata hanging around tra bar e piazza lo vedono passare in giacca e cravatta. Nessuno in giro. Gli vanno dietro, gli camminano a un centimetro, lui impassibile. Cominciano a urlargli dietro facendo una vocina a sfottò “RICCHIUNI RICCHIUNI RICCHIUNI”. Lui resta impassibile. Cammina. Prendono un ramo di palma. Mentre cammina glielo spingono in mezzo alle gambe da dietro urlando: “RICCHIUNI RICCHIUNI RICCHIUNI”. Lui prova a rispondere: “come si permette la denuncio” e loro imperterriti, continui, palma e urlo: “RICCHIUNI RICCHIUNI RICCHIUNI”. Caldo da contr’ora. Corso deserto.
PORNOGRAFIA E SANITÀ PUBBLICA
Ospedale di Locri. Una giovane puerpera è ricoverata in chirurgia, perché in ginecologia i letti sono tutti occupati. Nella stessa stanza donne di San Luca. La giovane puerpera non riesce mai, nemmeno una volta, a cenare con la minestrina/mela/prosciutto dell’ospedale. Le signore santolucote ogni giorno per pranzo si fanno portare da mariti, zie, nonne, parenti vari: pasta al forno, capretto in umido e arrosto, polpette di melanzane, soppressate e pane di casa, pezze di pecorino, bottiglie di vino. Fanno il caffè sul fornelletto da campeggio. Il cibo di San Luca, non si sa per quale oscuro motivo, è straordinariamente buono. Tutto. Sempre. Resistere ai “favorite” è ovviamente inutile. Si è tanto circondati di sollecitudine che si mangia e basta. Un dì, dopo il ricco pranzo, una delle signore tira fuori una rivista. La giovane puerpera rimane sorpresa nel constatare che si tratta di un giornaletto porno. “Ma come signora leggete queste cose?”. “Eh sapete c’è sempre da imparare”. In più le signore si divertono molto a parlare di cose hard, ma (come avviene nella profonda cultura agro-pastorale) solo in metafora. Es: “Tutt’e jorna eu facia u brodu, e u maritu meu calava a pasta”, “Tutti i giorni facevo il brodo e mio marito calava la pasta”. Finché dopo vari giorni una di loro dice all’altra “On a hiniti mu parrati e si cosi ca cca ndavi na’ figghiola”, “Finitela di parlare di queste cose, qui c’è una ragazzina”, e l’altra: “see chista sgravau, oramai u hurnu è fattu” . Sii, ormai ha partorito. Il forno è fatto.
PRIMA NOTTE DI NOZZE
Carmelina non voleva sposarsi. O magari anche sì, ma non gli andava giù quella cosa lì, che un uomo si prendesse certe libertà, che disponesse del suo corpo. No. E il marito glie l’avevano trovato pure, e pure un buon uomo e pure bello, e quindi ci fu il matrimonio col vestito, i testimoni e il ragù (gli anni 50 qui equivalevano al medioevo alimentare, si mettevano in padella i topi di campagna, c’era chi lo aveva mangiato una vota nella vita il ragù), ci fu il matrimonio e ci fu la prima notte di nozze. Niente. Lei non voleva. Il marito gentile gentile, e disperato disperato. La seconda notte di nozze. Niente. Il marito sempre più disperato. Alla terza andò dalla madre di lei, che -poche storie- impose alla figlia di starci. Ora lei, che ha avuto quattro figli ed è bisnonna, la racconta ridendo, le manca tutta la fila di sotto dei denti davanti e ride, ride ride.
PRIMA NOTTE DI NOZZE (alternative take)
Rosaria si sposa e la sua prima notte di nozze la ricordano tutti in paese. In un paese di base l’intimità non esisteva, si dormiva spesso in quattro su un pagliericcio, ogni buco era abitato, se non altro da asini il cui respiro era la muzak dei ritorni a casa notturni, c’era una generale atmosfera di vicinanza e ammucchiamento con le case che si tenevano l’una all’altra e muri divisori improvvisati. Della prima notte di nozze di Rosaria tutti sapevano tutto. Lei strillava di gioia “Suli meu!” “Sole mio” al fresco marito. E a lui rimase il soprannome. “Suli meu”. Tutti lo chiamavano così, senza più nemmeno ironia: “suli meu”. Arrivau u suli meu.
PROSTITUZIONE RURALE (E NO)
Che in ambito della civiltà rurale la prostituzione fosse diffusa (quelli della civiltà pastorale pare se la sbrigassero con le pecore e le capre, il cronista ha sentito discorsi di agnellini che uscivano sanguinanti da incontri coi pastori) è un dato antropologico noto. Esistevano dei centri in cui la pratica pare fosse molto diffusa. Ma era un uso random frequentissimo dappertutto, non solo al Sud. Una scopata in cambio di un’otre di olio, o un boccaccio di olive, o di una tumulata di grano. Poi, all’arrivo di un po’ di benessere, con la scomparsa della fame, la scomparsa della prostituzione. Si diceva di signore piccoloborghesi che frequentavano case in altri paesi, ma nessun vero e proprio “sistema prostitutivo”. Anche perché il tipo di mafia presente nel territorio teneva al ruolo sociale di buoncostume (i traffici veri stavano ovviamente da un’altra parte).
Almeno fino all’arrivo nella Locride delle Nigeriane, che poi magari erano anche congolesi, gibutine, capoverdine e chissà. A un certo momento il cronista ha ricevuto un messaggio da un paese in cui le prime nigeriane (o capoverdine o quel che è) erano state accolte in una casa vuota. “CCa è chiunu i costraschiuni chi lapunìjanu”. Traduzione laboriosa, qualcosa come: “qui è pieno di ragazzi sfaccendati e aggressivi che girano intorno come grosse api”.
Dalla prostituzione rurale alla prostituzione urbana. Per strada o in appartamenti sulla costa che poi vengono affittati per l’estate, quelli coi divani economici e già subito sfregiati, e con le tovaglie di kasanova, e i piatti cinesi con motivi a fiori. Le trovi di giorno più che di notte. Dai un passaggio in macchina. Prendi un numero di telefono.
STREGA
Maria voleva sposarsi. Solo che quando aveva dodici anni capitò nelle mani dell’arciprete, che dopo lo stupro se la tenne come amante per qualche tempo. La faccenda era naturalmente nota e Maria non trovò mai un marito. Più avanti ebbe diverse relazioni con diversi uomini, senza mai sposarsi, e diversi figli a cui diede il suo cognome,la possibilità di studiare e di “sistemarsi” (“tutti sistemati ngrazia e ddiu” dice), tutto coi guadagni forniti dalla sua professione. Levatrice, ma più che altro fattucchiera. Togliere il malocchio (“sciumicare”), preparare filtri, dare consigli sul dedalo di rituali che dirigevano la vita in un paese antico: dalla formula per capire il giorno di San Giovanni se la ragazza si sarebbe sposata o no, a cosa fare in caso di mal d’orecchie. Levatrice, medichessa, e strega. Voce prestigiosa ai canti in chiesa del Venerdì Santo.
STREGONE
Viveva sulla riva dell’Amusa (fiumara nei dintorni di Caulonia) un mago solitario. Esorcista, guaritore. Arrivarono a lui donne di una contrada vicina per essere guarite, lui le aveva ammonite di portare con sé molte fascine secche. Al loro arrivo prende qualche fascina, accende un focherello e le fa spogliare nude come mamma l’ha fatte, poi gli fa saltare il fuoco, da una parte all’altra. Saltando si bruciano (“come ghiri” raccontano le donne che riferiscono gli avvenimenti, i ghiri devono essere abbrustoliti per eliminare le radici del pelo, prima della cottura) e si procurano vesciche. Saputo ciò che era successo – ma cosa era successo? Qualcuno sostiene che il mago avesse tentato approcci con qualcuna delle donne- i loro uomini andarono dal mago e lo “faccettiàrono”. Lo fecero a pezzi con la scure.
SVANIRE
La fatica di incontrarsi senza che nessuno lo sappia. Tutti conoscono i movimenti di tutti. Comunicare senza che se ne accorgano è difficile. Andare in un posto senza che nessuno (nessuno che conosci, vale a dire nessuno tout court) ti veda è quasi impossibile. Quasi. Memorizzare il numero sul contatto di un amico e attenzione a non sbagliare. A scanso di tutto non usare whatsapp. Poi che c’è da dire su whatsapp? Siete tutti e due solidamente impegnati, si tratta solo di prendere appuntamenti, col problema che la Calabria è un posto dall’esistenza residuale, e quindi può benissimo capitare che tu ci sia e l’altro/a non ci sia in quei giorni. E quindi non si sa. E bisogna sparire. Non usare la macchina anche se ci si incontra di notte. L’automobile mette in moto qualcosa di cognitivamente notevole, ti riconoscono subito, anche a distanza anche al buio, anche se hai una punto grigia come ce l’hanno tutti. Una volta hai cambiato macchina e la gente in strada in pieno giorno non ti salutava: non ti riconosceva. Quindi uscire a mezzanotte, camminare, direttamente per i campi, basta che non sia stagione di caccia ai ghiri o ci si può trovare impallinati e scoperti. Non usare una torcia, o quelli del casale a fianco già nervosi causa ladri vedono e tirano fuori il calibro e impallinati e scoperti. Raggiungere il posto, magari due chilometri in mezzo ai campi, in salita. Inciampare. Spine alle caviglie. Silenzio dopo le bestemmie. Bella la luna. Avere già trovato un casale dove di sicuro non spunta una pecora, o un mandriano anche lui col calibro: impallinati e scoperti. Trovarsi. Non avere un letto. Paglia. Non vedersi, perché la torcia non si può usare. Non spogliarsi: poi cercare un calzino in un pagliaio di notte è più difficile che trovarci un ago di giorno. Tornare prima dell’alba, verso le tre, il “chiò” dei gufi. Il “cra” delle rane, il “cri” dei grilli. Fare la doccia in giardino, gelata, con l’aurora delle dita di rosa. Bello. Accendersi una Marlboro, nudo sulla sdraio. Bel bello. Tornare in camera da letto in cerca di biancheria. E la voce di tua madre: “Ancora con questa storia? Sono cinque anni! È a vota bbona chi finisci impallinato e scoperto”. E lo sguardo di tua madre. E tu lì. Una mano davanti, e una di dietro.