Il grillo parlanteL’Unione Europea deve cambiare? Renzi e Nannicini, diteci come

Renzi e Nannicini hanno ragione: l'Italia e l'Europa hanno bisogno di terapie per crescere e riprendere in mano il futuro. Il problema, però, è che non dicono come fare: non entrando nel merito delle questioni lasciano più di un dubbio sulla loro ricetta

Su una cosa Matteo Renzi e Tommaso Nannicini hanno ragione: l’Italia e l’Europa hanno bisogno di terapie d’urto per agganciare un futuro che ci sta sfuggendo di mano. E, tuttavia, la cura shock che l’ex premier descrive nel suo libro e che il suo consigliere economico spiega in un’intervista a Linkiesta, non sembra, neppure, tanto drastica. E rischia di aumentare quel buco nero di incertezza che si profila dopo le elezioni in grado di peggiorare la situazione prima, ancora, che ci si metta mano. A meno che non venga completata da elementi essenziali e che, per il momento, non si conoscono.

Ed allora vediamo quali sono le intuizioni giuste, ma anche cos’è che non convince della ricetta di Matteo e Tommaso.

1. È innanzitutto vero che i parametri di Maastricht sono sostanzialmente stupidi, al punto tale che la flessibilità (senza strategia però) è già ampiamente applicata ed essi sono già abbondantemente disattesi da quasi tutti i soci del club EURO. Leggendo l’ultimo forecast di Primavera della Commissione Europea, ci si rende conto che i 34 parametri che il patto di stabilità tiene sotto controllo (due per ciascuno dei 17 Paesi che aderiscono all’EURO, considerando sia il 3% sotto il quale deve essere il deficit sul PIL che la convergenza al 60% che è il tetto al debito pubblico sul PIL) sono violati in 23 casi (due volte su tre). Le violazioni sono molto inferiori tra gli altri undici Stati dell’Unione che non aderiscono, ancora, all’Euro. E nessuno ha mai pagato una delle salate sanzioni che il patto di stabilità stesso prevede.

2. Ma l’errore strutturale del patto di stabilità non è quello di chiedere (ed, in parte, ottenere) il dimagrimento dello Stato. Ridimensionare il leviatano arrivato a consumare il 50% del PIL, è fondamentale per rendere più matura una società; diventa, persino, più importante, oggi, che le tecnologie stanno disegnando un mondo nel quale gli Stati sono progressivamente dis-intermediati in molte delle loro funzioni; ed è, persino, un obbligo morale visto che il debito pubblico non è altro che una cambiale che lasciamo ai nostri figli.

3. Il patto di stabilità va, invece, rifondato perché considera solo i macro aggregati – deficit, debito, spesa pubblica, tasse, PIL – e non la loro composizione che fa, invece, un’enorme differenza. Non la loro allocazione tra generazioni e segmenti di popolazione caratterizzati da diversa capacità produttiva. Ci sono spese pubbliche riducendo le quali puoi aumentare la ricchezza: la burocrazia del PRA e della motorizzazione civile ne è un esempio lampante. Così come possono esserci tasse (ad esempio quelle sulla benzina o sulle seconde case) aumentando le quali puoi incoraggiare l’innovazione, scoraggiare la rendita e produrre crescita. In attesa di un ministro delle Finanze europeo (la cui “venuta” è però complicata da una serie di questioni di legittimità politica assai difficili da risolvere) sarebbe già un grosso passo avanti se il patto di stabilità provasse a tener conto della differenza che diversi “moltiplicatori” tra voci diverse di spesa hanno sulla crescita di medio periodo e sul PIL potenziale che è ciò che conta e che va ai denominatori dei parametri di Maasthricht. I modelli macroeconomici normalmente non apprezzano questo dettaglio, eppure è quello che può dividere, da solo, politiche economiche fallimentari da quelle che hanno avuto successo.

Il patto di stabilità va, invece, rifondato perché considera solo i macro aggregati – deficit, debito, spesa pubblica, tasse, PIL – e non la loro composizione che fa, invece, un’enorme differenza

4. Ed è proprio questo l’errore principale che Matteo e Tommaso fanno. Non entrano nel merito. Non spiegano quali tasse vogliono tagliare. Non entrano nella questione – decisiva – di come il bilancio dello Stato alloca le proprie risorse tra diversi utilizzi possibili. Eppure i paradossi su cui lanciare riforme vere non mancano. Siamo tra i Paesi che meno spende in beni culturali, ma anche quello con più poliziotti. Spendiamo quattro volte di più in pensioni (275 miliardi di euro) che in educazione (dagli asili all’università) e basterebbe portare la spesa pensionistica italiana rispetto al PIL (17%) agli stessi livelli registrati in Germania (12%) per recuperare 75 miliardi di EURO all’anno, che sono più di due volte quello che Matteo e Tommaso propongono di rastrellare in cinque anni. Certo una riduzione delle pensioni deve essere mirata e non si può toccare la serenità di quelli che della pensione hanno bisogno: eppure basterebbe un terzo di quella cifra per avere una terapia d’urto che consentirebbe di premiare gli insegnanti migliori e, persino, di tagliare debito pubblico per ottenere il bonus aggiuntivo di una riduzione sui 70 miliardi di interessi che ogni anno paghiamo.

5. Ma non meno fondamentale sarebbe che Matteo e Tommaso, finalmente, mettessero in agenda una riforma radicale dell’amministrazione pubblica. Se qualcuno (e molti lo fanno citando Keynes che, da tempo, si contorce nella tomba) vuole investire di più in Italia, se volessimo, davvero, metterci a fare le riforme, il paradosso è che investimenti e politiche sono nelle mani di un’amministrazione pubblica vecchia e non più adeguata. È assurdo continuare a fare battaglie con la Commissione per ottenere la possibilità di spendere 8 – 10 miliardi di EURO di soldi nostri in più, in un Paese nel quale dopo tre anni e mezzo abbiamo speso meno del 5% dei 32 miliardi di EURO di fondi strutturali della Commissione Europea che dal 2014 abbiamo disposizione per lo sviluppo delle nostre Regioni.

Non è vero che abbiamo rimesso in ordine i conti di casa e che adesso abbiamo solo da sperare in un maggiore supporto da parte dell’Europa. Così come non è vero che non ci sono interessi da rottamare e che impediscono di utilizzare i margini di crescita (ancora enormi) che questo Paese ha. Scaricare sul nemico esterno tutta la responsabilità della nostra crescita rischia solo di peggiorare le cose. Di far percepire a Bruxelles che – tra Salvini, Grillo, il Berlusconi dello spread e Matteo Renzi – non sia rimasto più nessuno a difendere quel rigore che è fondamentale prima di poter essere invitati a rifondare un’Europa che ha bisogno dell’Italia. E dare questa sensazione ai nostri partners mentre alle prossime riunioni del Consiglio Direttivo della Banca Centrale Europea si discuterà la possibilità di una chiusura progressiva dell’ombrello protettivo che ci ha finora salvato, può esporci al rischio di peggiorare la situazione anche prima di poter avere un nuovo Governo.

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