TaccolaNon raccontiamoci frottole: “Aiutarli a casa loro” non farà diminuire l’immigrazione

L’Africa è ripiombata nell’abisso e difficilmente un Piano Juncker africano riuscirà a tirarcela fuori. Ma anche se avesse successo, ricordiamoci di un fatto: all’aumentare dei redditi l’immigrazione ancora per molti anni crescerebbe, non diminuirebbe

TONY KARUMBA / AFP

Aiutare i migranti a casa loro, come dice da anni la Lega Nord, o “aiutarli davvero a casa loro”, nella versione di Matteo Renzi, è quanto mai necessario. L’Unione europea e il G20 hanno varato nelle scorse settimane dei programmi ambiziosi, rispettivamente il “Migration Compact” e il “Compact With Africa”. Ma è bene chiarirselo da subito: nel breve e nel medio periodo, cioè per decenni, un miglioramento delle condizioni di vita in Africa non porterebbe a una riduzione degli sbarchi. Anzi, l’effetto sarebbe solo di spingere molte più persone a tentare la fortuna.

Di miglioramenti, per la verità, non parla più nessuno. Sono lontani ricordi i tempi della copertina dell’Economist sull’“Africa Rising”. Era il 2013 e il settimanale britannico mostrava al mondo i progressi del Pil, la riduzione delle guerre e delle carestie, i successi della lotta a molte delle malattie più pericolose, come quelle provocate dai parassiti. Quest’anno i titoli sono stati molto più cupi: “Nubi sopra un continente”, “Cosa spinge le masse accalcate”, fino al più sinistro: “Il ritorno del terzo cavaliere”, ossia la carestia, che è tornata ad affiggere milioni di persone tra Sud Sudan, Nigeria e Somalia (oltre allo Yemen, nella Penisola arabica).

I tempi sono duri anche in altri Stati e i motivi sono diversi: il calo del prezzo del petrolio e delle altre materie prime ha dapprima, nel 2015, colpito solo i Paesi esportatori, come Nigeria e Angola, che dall’oro nero derivano il 90% delle esportazioni. Successivamente a subire i contraccolpi sono stati anche i Paesi importatori di greggio, come Kenya ed Etiopia. Il secondo colpo è arrivato dalla grande siccità nell’Africa orientale, alla base della recrudescenza della carestia in Paesi come la Somalia e l’Etiopia. Ma la carestia si accompagna sempre alle guerre e all’impossibilità di far arrivare aiuti umanitari, come nei villaggi del Nord-Est della Nigeria controllati da Boko Haram o nella Somalia, Stato fallito per antonomasia, o nel Sud Sudan, Paese che poco dopo la sua nascita, nel 2011, si è ritrovato in una guerra civile con responsabilità gravissime del governo. L’instabilità politica si è vista in altri Paesi che pure dei segnali positivi avevano visto negli anni precedenti, come il Burundi. Dove non ci sono dittature ci sono i continui cambi delle costituzioni che i presidenti in carica attuano per aggirare i limiti al numero di mandati. In altre circostanza ci sono stati dei clamorosi abbagli economici, come la decisione del Kenya di porre dei limiti ai tassi di interesse, che ha provocato un crollo dei crediti, o economico-politici, come in Camerun, dove la paura dei dissidenti da parte del governo ha portato alla chiusura di internet nelle parti anglofone del Paese. Anche le speranze sul salto tecnologico procurato dai servizi, anche finanziari, veicolati attraverso gli smartphone devono fare i conti con la realtà di connessioni a internet che possono costare fino a 500 euro al mese.

Il risultato di tutto questo è un Pil che nel 2016 è sceso ai minimi da molti anni a questa parte: +2,5% (+1,4% nell’Africa Subsahariana) nel 2016; nel 2014 si viaggiava sul +4,5 per cento. I debiti pubblici, pur spesso azzerati una decina di anni fa, riprendono correre a tassi di interesse elevatissimi, a causa degli alti rischi politico-economici. Per il 2017 le previsioni della Banca Mondiale sono solo leggermente più positive: +2,5% per l’Africa subsahariana, tendenza al rialzo che dovrebbe rafforzarsi nel 2018.

Il calo del prezzo del petrolio ha messo in ginocchio i Paesi produttori, la siccità e le guerre hanno determinato il ritorno delle carestie, le instabilità politiche si sono moltiplicate e il resto lo hanno fatto scelte economiche azzardate. Così l’Africa subsahariana è tornata a perdere la speranza di una crescita economica costante

Più reddito, più migrazioni

“Aiutarli a casa loro”, dunque, è necessario. Ma sarebbe il caso di chiarirsi subito le idee: se anche nuovi aiuti o investimenti da Occidente e Cina portassero a un miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti dell’Africa, le migrazioni non cesserebbero. I motivi sono due: il primo è l’aumento demografico nel Continente. Nel 2050 l’attuale popolazione, già cresciuta ad alti ritmi negli ultimi decenni, è destinata a raddoppiare, da 1,2 a 2,5 miliardi di persone. Secondo la Banca Mondiale già oggi ci sono 50 milioni di persone in condizioni di estrema povertà in più rispetto al 1990. Se, come è accaduto nel 2016, la crescita del Pil è inferiore a quella della popolazione, è intuitivo capire che il reddito pro-capite scende.

Il secondo motivo è più sottile e lo ha ricordato nei giorni scorsi un intervento del direttore del centro studi Brugel di Bruxelles, Guntram Wolf, con Maria Demertzis. Perché il flusso di emigrazione si arresti, spiegano, è necessario che il reddito pro-capite raggiunga i 7mila-9mila dollari all’anno. Al di sotto di quella cifra all’aumentare del reddito aumentano solo la propensione ad andarsene e le risorse per farlo. Cosa che accadrà a lungo. Sui 47 Stati dell’Africa subsahariana solo 7 hanno un reddito pro-capite superiore a 9mila dollari e 39 lo hanno inferiore a 7mila. Anche se tale reddito salisse del 2% all’anno, nel 2030 sarebbero ancora 35 gli Stati sotto quel livello. «Sono molti gli studi che dimostrano questo fenomeno. I più noti sono quelli dell’Università di Oxford, secondo i quali non sono i più disperati a partire ma chi ha un reddito medio-basso», commenta Luca Raineri, assegnista di ricerca presso la Scuola Sant’Anna di Pisa in Relazioni internazionali e autore di interventi sul tema per Limes e per l’Istituto Affari Internazionali. «Anche se le nuove politiche di investimento dovessero avere successo, sicuramente per i prossimi 5 o 10 anni i flussi migratori aumenterebbero – commenta -. Chiunque si occupi seriamente della questione ne è pienamente cosciente. Tuttavia i politici hanno ormai acquisito la cattiva abitudine di parlare per slogan e mostrare dei piani che fanno guadagnare tempo e consenso, ma che non cambiano la realtà».

Perché il flusso di emigrazione si arresti è necessario che il reddito pro-capite raggiunga i 7mila-9mila dollari all’anno. Anche se il reddito attuale salisse del 2% all’anno, nel 2030 sarebbero ancora 35 gli Stati sotto quel livello

Processo agli aiuti

Raineri in passato ho lavorato per delle Ong come COSPE, International Alert e Médecins du Monde ed è stato impegnato in diverse esperienze di ricerca e raccolta dati sul campo in Senegal, Mali, Niger, Tunisia. Ha quindi un quadro sia teorico che pratico su quello che finora non ha funzionato nelle politiche di aiuti giunti dall’Occidente. In primo luogo, la quota di Pil da destinare alla cooperazione internazionale, che i Paesi Ocse si erano impegnati a portare allo 0,7%, è ben lontana da quella cifra. L’Italia ha aumentato negli ultimi anni la quota, passando nel 2015 dallo 0,22% allo 0,26%, per un totale di 4,8 miliardi di euro; ma, come denunciato da Action Aid, un terzo dei fondi stanziati rimane in Italia, per le spese legate alla gestione dei rifugiati.

C’è poi la grande questione di cosa venga finanziato e tramite chi. I progetti non sono seguiti direttamente dai governi ma passano attraverso agenzie internazionali o le Ong. Non tutte hanno la stessa efficacia né la stessa capacità di opporsi alla piaga della corruzione e ai suoi effetti perversi. Il fatto che i Paesi riceventi abbiano sempre il diritto di sovrintendere agli aiuti (circostanza con una sua logica di sovranità territoriale) si tramuta in una distribuzione dei fondi a vantaggio di città legate ai membri del governo o a chi assicura che il potere si mantenga in equilibrio. In altre parole una mangiatoia che disperde gran parte delle risorse. Per questo motivo secondo il modo più efficace di “aiutarli a casa loro” è, paradossalmente, lasciare partire le persone, perché le rimesse superano nettamente il totale degli aiuti pubblici allo sviluppo. Non solo: hanno un’efficacia spesso maggiore, perché in molti casi esistono progetti di accompagnamento da parte delle Ong che riescono a far veicolare tali risorse verso progetti locali, come la costruzione di scuole o di sistemi di irrigazione.

Altri problemi sono meno noti: «Le migliori stime prodotti sui flussi di ricchezze che fuoriescono dall’Africa in maniera illecita dicono che queste sono più del doppio del totale degli aiuti pubblici», commenta Raineri. Stiamo quindi parlando di materie prime per miliardi di euro che vengono esportate illegalmente. «Se non si pone un freno a questo depauperamento delle ricchezze del Continente, gli sforzi serviranno a poco». Anche l’Unione europea non esce bene dalla diagnosi, per gli accordi stretti tra la Commissione e i corpi subregionali dell’Unione Africana (organismo peraltro finanziato al 70% dalla stessa Ue). Sovente questi accordi hanno portato a un «dumping di prodotti agricoli finanziati dalla Politica Agricola Comunitaria (Pac), che possono essere venduti sotto-costo in Africa», spiega Raineri. Un esempio citato è quello della salsa di pomodoro italiana venduta in Ghana. Con il risultato che i produttori locali, rimasti senza lavoro a causa della concorrenza aggressiva dell’Ue, sono costretti a emigrare in cerca di impiego.

Chiude il quadro negativo il sostanziale fallimento dei processi di “state building” in diversi Paesi. La necessità di stringere accordi con i Paesi di transito ha portato governi come quello italiano a chiudere entrambi gli occhi sulle condotte del governo del Niger. Le esigenze anti-terrorismo, in particolare della Francia, hanno fatto lo stesso con il Ciad. «Ci sono richiami alla “good governance”» in Paesi che non rispettano i diritti umani, «ma sono di fatto dei “lip service”, parole di circostanza», aggiunge il ricercatore della Scuola Sant’Anna di Pisa. Per tutti questi motivi finiscono per essere meno ipocriti e spesso più efficaci, nota il ricercatore con una punta di amarezza, gli investimenti promossi dalla Cina, esplicitamente basati sul principio di non ingerenza verso gli Stati esteri. Sono interventi che hanno lo svantaggio, per i Paesi riceventi, di non lasciare competenze sui territori, perché la manodopera è spesso cinese, ma che sono realizzati in tempi più rapidi. A volte anche gratuitamente, in cambio di relazioni diplomatiche che portano successivamente ad accordi di tipo riservato, non certamente trasparente.

Sono molti i problemi degli aiuti, tra cui il fatto che in gran parte siano accaparrati da governanti e funzionari corrotti. Il processo di “state building” che avrebbe dovuto contrastare tali fenomeni è stato in gran parte fallimentare

Europa e G20, la strada degli investimenti privati

Se questa è la situazione attuale, due novità sono accadute nelle ultime settimane. Il Parlamento europeo ha approvato il “Migration Compact” e al G20 di Amburgo è stato varato il “Compact With Africa”. L’intervento dell’Unione europea (che segue il Trust Fund, già finanziato con poco meno di 3 miliardi di euro) è una specie di Piano Juncker in versione africana. Vengono stanziati 3 miliardi di euro pubblici che dovrebbero portare, grazie a un effetto leva, a investimenti privati fino a 44 miliardi di euro. È un passaggio che ha visto l’Italia in prima linea, in particolare con il viceministro agli Affari esteri Mario Giro. Visto lo scarso successo del Piano Juncker – nonostante tutti gli sforzi di comunicazione degli enti comunitari – c’è da augurarsi che la sua replica africana sia più efficace.

L’enfasi sugli investimenti è al centro anche del “Compact With Africa”, un vasto programma che ha visto come protagonista il governo tedesco, tanto da essere chiamato “Piano Merkel”, dopo una prima etichetta di “Piano Marshall per l’Africa”. A leggere le sue 55 pagine si capisce che è soprattutto un tentativo di razionalizzare gli oltre 100 programmi di aiuti già esistenti e di attrarre investimenti privati. Questi arriverebbero una volta che si siano realizzate una serie di condizioni relativamente alla stabilità politica (ma non è citata neanche una volta la parola “democrazia”) e alle regole per le attività economiche e finanziarie. Il piano è stato salutato come un grande successo della Merkel ed è piaciuto agli stessi Stati Africani perché lascia a ciascuno la possibilità di scegliere la propria strategia e le proprie priorità. Ci sarebbe da entusiasmarsi se l’Africa non fosse già piena zeppa di programmi rimasti sulla carta. L’Agenda 2063 dell’Unione africana, per dire, prevede per il 2018 la libera circolazione dei cittadini all’interno del Continente e addirittura per il 2020 la fine di tutte le guerre. La realtà, naturalmente, è lontana anni luce.

Il Parlamento europeo ha approvato il “Migration Compact” e al G20 di Amburgo è stato varato il “Compact With Africa”. L’intervento dell’Unione europea è una specie di Piano Juncker in versione africana. Vengono stanziati 3 miliardi di euro pubblici che dovrebbero portare, grazie a un effetto leva, a investimenti privati fino a 44 miliardi di euro

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