Umberto Eco, spiegato meglio

Per la collana "Eredi" di Feltrinelli è appena uscito un libro totalmente dedicato al Professore, scritto dal suo discepolo, Claudio Paolucci, in cui c’è tutto il necessario per fare bella figura con gli amici e smerdare i soliti wannabe che si credono dei cronopi integrati

Tra i piaceri più grandi della vita possiamo annoverare il cibo, l’alcol, l’amore, la sigaretta tra la prima e la seconda portata al ristorante, l’amicizia, il venticello e svegliarsi alle otto di mattina di un martedì e rimettersi a dormire fino alle undici. Poi c’è il piacere intellettuale.

Il piacere intellettuale viene sempre considerato un’altra cosa, una modalità diversa di godimento, meno immediata. Forse perché, per provarlo, bisogna avere una formazione adeguata, o possedere almeno gli strumenti adatti per concepire il fatto che si possa trarre piacere anche dall’intelletto.

Per quanto sia impossibile da descrivere, attributo comune a tutti gli altri piaceri che, infatti, sono spesso accompagnati dall’aggettivo “indescrivibile”, il piacere intellettuale è anche molto difficile da definire. Leggere un bel libro, capire una teoria che prima risultava incomprensibile e raccontarla agli increduli amici all’aperitivo, avventurarsi in un progetto personale azzardato e portarlo a termine con successo e guardare una famosa serie tv inglese sui viaggi nel tempo sono tutti momenti meravigliosi per il nostro cervello, ma niente di tutto questo si avvicina lontanamente a ciò che potremmo chiamare “il piacere del tutto torna”. E l’unico modo per spiegarlo è parlare di Umberto Eco.

Facciamo un esempio, quello dell’ornitorinco. Uno dei modelli più importanti del lascito intellettuale di Eco è la sua proposta, e la sua capacità, di mettere insieme elementi che appartengono a domini eterogenei, creare e seguire connessioni inedite che uniscono concetti, idee e nozioni inaspettate. Una nuova struttura del sapere che parte dall’assunto secondo cui un dominio culturale può risolvere alcuni suoi problemi soltanto rimandandoli a un altro dominio culturale. Bene, Eco ci pensava da un sacco, addirittura fin dal suo primo libro Opera aperta in cui usava la fisica quantistica per spiegare la musica contemporanea – e già molto aveva scritto a riguardo -, finché un giorno non si imbatté nella storia dell’ornitorinco.

L’ornitorinco fu scoperto dagli esploratori europei alla fine del Settecento e, subito, presentò un grosso problema di classificazione: lungo cinquanta centimetri, il corpo coperto di pelame scuro, senza collo, con una coda da castoro, un becco d’anatra, quattro zampe con cinque dita palmate e artigli; la femmina depone uova ma allatta i suoi cuccioli, anche se non si vede alcun capezzolo. Insomma, come diceva Borges: l’ornitorinco è un animale fatto con pezzi di altri animali, così come la filosofia di Eco è fatta con pezzi di non-filosofia. Sembrava che l’ornitorinco esistesse proprio per mostrare la teoria di Eco, e viceversa.

Posso solo immaginarmi, anche se magari non è successo, il piacere sublime del Professore nell’accorgersi che, come si diceva prima, tutto tornava. Nel vedere come due configurazioni diverse, che provengono da domini diversissimi (etologia e semiotica), potessero spiegarsi l’una con l’altra. La cosa più bella è che non bisogna creare una teoria della significazione per godere di questo piacere. A me, per esempio, è capitato leggendo il libro di Claudio Paolucci su Umberto Eco. Breve inciso: la collana in cui Feltrinelli ha pubblicato il volume si chiama “Eredi”. E non è un caso che Feltrinelli un libro del genere l’abbia chiesto a Paolucci, che di Eco è stato allievo e su Eco ha scritto il libro, possiamo dirlo, definitivo.

Ma dicevamo: penso che ognuno di noi abbia il proprio modo di vedere il mondo, una personale struttura di ragionamento per dare ordine agli stimoli esterni. Attraverso le modalità con cui vediamo e connettiamo le cose che ci stanno intorno, abbiamo determinate convinzioni su come funzioni tutta la baracca. In un certo senso, tutti abbiamo, in nuce, una nostra teoria della significazione. Solo che la maggior parte non riesce, o non vuole, o non è interessata a sistematizzare le proprie convinzioni, cercare di trovarne una compiutezza, applicarle a domini eterogenei.

Eco sì, lui ci è riuscito. E mentre leggevo questo libro, e mentre a vent’anni lo studiavo forsennatamente, sentivo quel piacere del tutto torna: anch’io la penso così, anch’io l’ho sempre pensata così, ma a un livello così miseramente embrionale da non potergli dare nemmeno una briciola di dignità filosofica o epistemologica. Era una configurazione del mio pensiero che non riuscivo a mettere a fuoco, ed Eco me l’ha illuminata, l’ha innescata, a me come a migliaia di altre persone. Come a Claudio Paolucci, che però in questo libro fa ancora di più, costruendo una teoria sulla teoria, com’è giusto che sia quando si racconta qualcuno e qualcosa secondo i propri rispetti. Paolucci racconta Eco e, facendolo, racconta se stesso. Modula il pensiero del Professore attraverso il proprio, creandone uno nuovo, originale, prendendone le mosse.

Intendiamo qui per modulazione una trasformazione locale e continua che non arriva mai al punto di frontiera, cioè fino alla differenza di natura dei due elementi. Si capisce bene pensando alla celebre litografia di Escher con gli uccelli bianchi e gli uccelli neri: ci sono sempre un’infinità di stati intermedi che permettono di passare da un polo all’altro senza trasformarlo. Paolucci non dice altro rispetto a Eco, ma facendo filtrare Eco attraverso di sé e la propria esperienza (di studioso, di collaboratore, di amico), meticcia il pensiero di Eco, lo “paoluccia”.

Spiegare meglio questo punto potrà far capire meglio l’idea fondativa di Umberto Eco, quella dell’Enciclopedia.

Paolucci ha modulato Eco. All’università, perché chi scrive ha seguito le sue lezioni nell’ormai lontano 2005, Paolucci ci ha insegnato la sua modulazione e noi, la sera, all’aperitivo, ce la raccontavamo, modulandola a nostra volta attraverso la nostra Enciclopedia, l’insieme delle conoscenze e dei già detti. Mi accorgo sempre di più che il mio modo di pensare il mondo e la cultura è una modulazione di quello di Paolucci, che è una modulazione di quello di Eco, che a sua volta, e a suo modo, ha modulato il pensiero di Charles Sanders Peirce, e così via. Questo significa fare cultura, produrre significazione, proprio nel senso di fabbricarla, creare qualcosa di nuovo a partire da qualcosa che è già stato detto.

Ecco qua la chiave di volta: la semiotica di Eco è moltiplicatoria, inclusiva, accogliente, ti irretisce, ti stimola, ti sveglia. E forse è proprio questo che definisce l’idea, spesso sfuggente e imprecisa, di intellettuale, una persona, cioè, che ti innesca. Umberto Eco era un vero intellettuale, che si metteva al servizio della società, della comunità – si vedano, per esempio, i suoi contributi fondamentali al dibattito degli anni Settanta sulle BR, da pagina 122 in poi del libro in questione. E, per questo motivo, Eco è stato anche una delle persone più citate al mondo. Ma le citazioni, si sa, sono caricature: prendono una piccola parte e, ingigantendola, la deformano.

Qualche esempio di vulgate deviate: Eco pensa che Superman abbia lo stesso valore di Baudelaire. Sbagliato. Eco ride su tutto e di tutti e prende le cose con leggerezza. Erroneo. Eco è esageratamente erudito e considera la cultura come accumulo di nozioni fini a se stesse. Scorretto. E poi c’è l’annosa questione degli apocalittici e degli integrati, sulla quale vorremmo spendere qualche parola in più, per fare finalmente chiarezza.

Apocalittici e integrati è una raccolta di saggi pubblicata da Bompiani nel 1964, in cui Eco ragiona sulla comunicazione e la cultura di massa. Ultimamente, questa dicotomia è stata rispolverata e applicata al web e ai social network, e un po’ tutti la citano, quasi tutti a sproposito.

La maggior parte dei citazionisti la mettono sul piano del discorso della battaglia: apocalittici vs integrati (ma a volte si sente dire anche “integrali”), ed è normale che tutti siano portati a scegliere uno schieramento e a identificarcisi. Ovviamente i “buoni” sarebbero gli integrati, quelli a favore della comunicazione di massa, quelli che vogliono la cultura alla portata di tutti, mentre quei cattivoni degli apocalittici sono dei fighetti snob che non si mischiano alla plebe ignorante. La vulgata è: gli apocalittici respingono la cultura di massa, gli integrati la assumono. Noi siamo giovani sul web e dunque siamo integrati.

Quanti, QUANTI discorsi di questo tipo si sentono in giro, al bar, alle cene, agli incontri, nei commenti su Facebook e sui blog culturali. E sono sbagliati. È un po’ come con i cronopios e i famas di Cortázar, con tutti che vogliono essere cronopios, quelli che “se si lavano i denti alla finestra, spremono tutto il tubetto per veder volare al vento festoni di dentifricio rosa” (Calvino), quando, invece, intanto il voler essere troppo cronopio ti rende un fama, e comunque, sempre citando Calvino nella nota introduttiva all’edizione Einaudi, “osservando bene, si vedrà che è una determinazione degna dei famas che i cronopios mettono nell’essere cronopios, e che nell’agire da famas i famas sono pervasi da una follia non meno stralunata di quella cronopiesca”.

Le cose, in realtà, stanno così, e Paolucci lo spiega perfettamente e, spero, una volta per tutte:

“Il dibattito tra apocalittici e integrati era completamente interno alla cultura alta: gli integrati sono i produttori di prodotti culturali destinati alle masse a fini di controllo e di conservazione. Gli apocalittici ne sono i censori, senza che essi facciano però nulla per migliorare la situazione. L’unico che vuole far interagire cultura bassa e cultura alta è proprio Eco”. (p. 85).

Eco non è né apocalittico, né integrato, nonostante le migliaia di domande che ha subìto a riguardo. Ma, a pensarci, è normale che sia così, che ciascuno moduli Eco e il suo lascito teorico e culturale a suo modo, e questo dice molto sulla grandezza del personaggio, il cui nome in epigrafe serve a legittimare qualsiasi discorso: “ah, se l’ha detto Eco…”. Ma il compito della semiotica, lui così ci insegnava, è quello di fare la perizia sulle cose, come quando fai la perizia su una casa prima di comprarla. Questo libro, dunque, fa semiotica, perché seleziona, sistematizza, divulga e modula ciò che di Eco è vero e, altrettanto importante, ciò che di Eco è falso, l’ossessione del Professore. Una breve citazione, per capirci:

L’importante non è studiare come funziona il linguaggio quando dice il vero – c’è una luce accesa in questa stanza – ma quando dice il falso – c’è un fantasma dietro le tue spalle. È lì che il linguaggio crea mondi, invece di rifletterli. (via)

Bella roba, vero? Sì, e ci sarebbe tantissimo altro da dire. Ma non ha senso entrare nel dettaglio, questo è compito del libro, ed è un compito portato avanti perfettamente – ricordiamo bene che Claudio Paolucci ha collaborato con Eco per vent’anni, teneva seminari all’interno del suo corso all’Università che poi ha ereditato. Ero lì quell’anno in cui dovevamo avere un corso tenuto da Umberto Eco che cambiò in un corso tenuto da Paolucci.

Ha senso però ribadire che, se volete conoscere e citare davvero ciò che Eco ha detto e pensato, qui c’è tutto il necessario per fare bella figura con gli amici e smerdare i soliti wannabe che si credono dei cronopi integrati.

Il libro di Paolucci è denso, articolato, ci sono mille cose dentro, ma fila a meraviglia e ti dà quella sensazione, mentre lo leggi, del “torna tutto”, quando ogni pezzo si mette al suo posto e, da una prima e sconnessa impressione, si srotola nel nostro cervello. È un libro complesso ma non complicato e, soprattutto, ha evitato l’errore più banale, quello per cui lo aspettavamo al varco: ritorcersi nel proprio linguaggio tecnico, allontanando i non adepti. E invece no, e invece la semiotica, che ricordiamo essere un campo e una scuola, non una disciplina, è accogliente, e c’è posto per tutti quelli che vogliono divertircisi dentro.

E poi nel libro c’è tanto spazio anche per i romanzi: dal Nome della rosa al Pendolo di Foucault fino a La misteriosa fiamma della regina Loana. Del resto è dai romanzi che conosciamo le teorie filosofiche di Eco sul riso e sulla verità, perché appunto, come dicevamo, quella di Eco è una filosofia fatta da pezzi di non-filosofia.

Claudio Paolucci voleva molto bene a Umberto Eco ed è riuscito a essere presente e allo stesso tempo distante dalle pagine che ha scritto, spuntando ogni tanto con la delicatezza dei ricordi con il Professore. Tutti noi non possiamo che provare un’ammirazione infinita per un intellettuale che, allo stesso modo di Indiana Jones nel tempio maledetto e del marinaio sulla coffa che ha urlato terraaa! credendo di aver trovato le Indie, ha vissuto una grande avventura lunga tutta una vita, avvistando continenti culturali mai immaginati prima.

L’avventura è finita, adesso, ma il viaggio è stato grandioso.