Negli ultimi mesi, negli Stati Uniti, un progetto governativo che ha l’obiettivo di rimuovere dal territorio pubblico le statue dedicate agli eroi sudisti sta suscitando immense polemiche nell’opinione pubblica americana, tanto aspre da aver innalzato enormemente la tensione e portato a duri scontri, a manifestazioni e contromanifestazioni che vedono da una parte i nostalgici neonazisti dell’Illinois, anzi, della Virgina, e dall’altra i movimenti antirazzisti.
Il problema, oltre ad essere evidentemente sociale e di ordine pubblico, è molto delicato anche dal punto di vista intellettuale e culturale e va ben oltre sia alla rimozione di una singola statua, sia alla figura del generale Lee, che noi ricordiamo per avere dato il nome a una famosa macchina di un telefilm anni Ottanta, ma che dalle parti della Virginia ricordano per il suo eroismo durante la guerra civile, nella quale militava nell’esercito confederato e difendeva la schiavitù.
Per i sostenitori della rimozione, la colpa di quelle statue è il rappresentare un pericolo per la società. Terrebbero in vita, con la loro stessa esistenza, la fiaccola dell’odio razziale e del diritto di una parte dell’umanità ad avere l’altra come schiava. Per questo andrebbero eliminate, come se fossero il virus che porta la malattia e che, una volta estirpato, non torna più. Ma è proprio qui che si nasconde l’errore, un errore molto pericoloso.
La verità è che siamo abituati a vedere le statue e i monumenti in un modo infantile. Per noi le statue servono soltanto alla celebrazione dei giusti, dei valorosi, dei coraggiosi, dei padri della patria, della gente da imitare, dei santi, degli eroi. Ci siamo dimenticati che possono avere un altro scopo, perpetrare l’infamia, ricordare gli errori, i cattivi, gli stronzi, quelli che hanno disatteso i valori dell’Umanità, i traditori, i vili. È uno scopo che, tra l’altro, gli viene anche piuttosto bene. D’altronde l’infamia è sempre stata più coriacea della lode.
Insomma, le statue sono un modo di fissare dei momenti della storia, delle traiettorie umane che, giusto o sbagliate, sono accaduti e non possono essere dimenticati. Ci sono tanti altri modi per farlo. Ci sono i libri, i quadri, le fotografie e il loro ruolo è sempre lo stesso: raffreddare il tempo e tentare di tenere viva la memoria del passato, di qualsiasi segno sia. Si scrivono libri su Hitler, si tieni in piedi il rudere resistito alle bombe durante la guerra, si tiene fermo l’orologio della stazione di Bologna all’esatto istante in cui esplose la bomba, e si fanno brutte statue del generale Lee.
È importante ricordare il male, forse più importante di ricordare il bene. In fondo, nella vita di ognuno di noi, i ricordi dei traumi tendono ad aumentare le possibilità che non ci ricapitino e, se ci dovessero ricapitare, vanno ad arricchire l’esperienza con cui li riaffronteremo e cercheremo di risopravvivergli un’altra volta. Eppure quando la stessa dinamica la vediamo accadere attorno a delle statue, che sono in qualche modo i ricordi della società, non riusciamo ad accettare che sia giusto così e, arrendendoci istinto dei vincitori siamo preda di istin
Quelle statue devono rimanere dove stanno, devono essere manutenute esattamente come deve essere manutenuto il Campidoglio, perché, esattamente come il Campidoglio, anche quelle rozze figure di cowboy razzisti fanno parte della storia degli Stati Uniti e non servirà a nessuno fare finta di nulla. Di sicuro non serviranno a togliere dalla testa di quei razzisti xenofobi nipotini del KKK tutta la spazzatura ideologica che si sono infilati in testa. I fantasmi dell’odio e della violenza non si sconfiggono nascondendo il tomahawk sotto terra, ma appendendolo in alto, sulla parete più importante di casa per ricordarsi che forma hanno quei fantasmi e saperli riconoscere quando si ripresentano.