Diminuire il pubblico per diminuire gli incidenti. Se la Tessera del tifoso aveva questo fine, allora possiamo dire che ha funzionato alla grande. Ma a vedere la desolazione dei nostri impianti, che molto spesso sono già poco invitanti per loro stessa natura poiché fatiscenti e scomodi, viene da dire che in questo caso il fine non ha giustificato i mezzi. Entrata in vigore sotto l’egida ministro degli Interni Roberto Maroni a partire dalla stagione 2010/11 dopo una lunga gestazione, come è d’altronde tradizione del nostro Paese, la Tessera del tifoso era stata voluta in realtà da un altro ministro, Giuliano Amato dopo la morte a Catania del commissario Raciti nel 2007. E si presentava come strumento di fidelizzazione dell’appassionato di calcio che d’abitudine va allo stadio. In sostanza, l’intento del dispositivo era quello di creare un pubblico riconoscibile, per isolare i violenti e colpiti da Daspo.
A furia di norme sempre più restrittive e di modalità di acquisto dei biglietti, il calcio si è però impoverito dell’elemento essenziale: il pubblico allo stadio. Se da un lato la gente ha cercato di rimediare guardando le partite alla tv (che fosse a casa con un abbonamento pay-tv o al bar, o perché no tramite una diretta streaming illegale), dall’altra si è assistiti sempre più a un orrido effetto acquario negli stadi italiani: niente tamburi o striscioni, trasferte limitate o vietate, spalti con pubblico a macchie. Un danno non da poco per un’industria come quella del calcio capace in Italia di muovere milioni, ma senza un indotto adeguato da parte del botteghino. Perché se è vero che le nostre società si sono mosse spesso e volentieri in ritardo o non si sono proprio mosse per rinnovare i propri impianti, ritenendo di potersi accontentare dell’enorme gettito derivante dai diritti tv, dall’altra quel pubblico davvero fidelizzato sul quale potevano contare si è andato assottigliando. I dati dell’Osservatorio Calcio sono impietosi. Nell’ultima stagione la media spettatori nella sola Serie A è stata di 22.217 unità: parliamo di un calo del 9,9% rispetto ad esempio al 2012/13, quando la media fu di 24.655 spettatori. E nell’ultima stagione prima dell’introduzione della Tessera, la media fu di 25.570 spettatori: più di 3mila in meno.
Ecco che allora, colto da improvviso ravvedimento, il Governo ha deciso di eliminare, seppur gradualmente, la tanto odiata Tessera, che diventerà nel corso del tempo una sorta di fidelity card emessa da ogni club e che servirà soprattutto come strumento di marketing: un modo cioè per tracciare ad esempio le nostre abitudini di acquisto dei biglietti. Ma l’eliminazione della Tessera non prevede la perdita della nominatività e il posto fisso che andranno rispettati: hai pagato per quello e quello ti prendi assumendotene la responsabilità, come accade negli impianti di campionato considerati più evoluti come la Premier League. Non solo: tornerà la modalità della vendita libera dei biglietti anche poche ore prima della gara e anche per i tifosi ospiti, sebbene in settori “non dedicati” e non per alcune gare che verranno considerate ancora a rischio, ma è già qualcosa. Torneranno megafoni e tamburi, con modalità che dovranno essere approvate da specifiche normative, ma anche questo è già qualcosa.
Ma soprattutto, torneranno le famiglie allo stadio. E questo è più di qualcosa. Perché lo stadio come luogo di aggregazione passa dalla presenza di persone che vogliono andare a vedersi una partita senza doversi confrontare un impianto normativo che aveva trasformato gli stadi in luoghi da evitare non per la violenza ma per le eccessive restrizioni. Portare le famiglie significa provare a recuperare incassi, puntare sul loro coinvolgimento per iniziative di merchandising, ma soprattutto significa capire quello che è il vero obiettivo della graduale eliminazione della Tessera del tifoso: responsabilizzare una volta per tutte il nostro calcio. La palla passa ora ai club, che dovranno gestire tramite steward e abbassamento delle barriere il delicato, delicatissimo passaggio verso una nuova fase del campionato italiano, quello appunto della responsabilità. Trasformare gli stadi in gabbie di tifosi rabbiosi, à la Thatcher, non fa altro che far imbestialire chi si ritrova dietro le sbarre di un settore ghetto/prigione. Così come alzare barriere, d’altra parte.
Un impegno che dovrà essere condiviso, da Istituzioni, pubblico e club. Le prime si impegneranno per destinare ad esempio 20 milioni di euro allo stadio Olimpico, per adeguarlo al nuovo corso e allo stesso tempo renderlo più fruibile in vista dell’Europeo 2020, che farà tappa anche a Roma. Dall’altra, tocca a noi viverlo stadio in maniera finalmente diversa, sperando ovviamente che le società li rendano più confortevoli. Ma l’abbassamento delle barriere non corrisponde ad un abbassamento della guardia: chi sbaglierà pagherà.
E il primo banco di prova sarà un test già determinante: si comincia sabato 19 agosto, la sera, con Hellas Verona-Napoli. Una volta, di fronte una gara come questa, dall’Osservatorio sarebbe partito un rischio allerta pari solo a quello di un imminente attacco nucleare, visto e considerato che queste due tifoserie non si amano molto, per usare un eufemismo. E invece è stato proprio l’Osservatorio a declassificarne l’alto rischio, consentendo la vendita libera anche poche ore prima della gara. E con la curva dell’Hellas chiusa, i tifosi di quel settore andranno in tribuna.
La nuova era della responsabilità del nostro calcio la dobbiamo anche al numero uno dell’Osservatorio Nazionale delle Manifestazioni Sportive Daniela Stradiotto. «Mi piacerebbe lasciare il segno sulla crescita dell’educazione nello sport, soprattutto fra i giovani. Non solo nel calcio. E poi, poter incidere anche sui genitori, sui nonni», spiegava un anno fa all’epoca del suo insediamento, dopo una carriera in Polizia. «L’errore nasce quando si pensa che una regola è contro di te. Sbagliato perché certe decisioni vengono prese per garantire lo svolgimento sereno, tranquillo di una manifestazione. Vengono prese nell’interesse di tutti», spiegava però sulle barriere dell’Olimpico, con furiose polemiche annesse. Ora le cose sono cambiate. La palla passa a noi, ai club. Vediamo di farcela.