Il bastone. Qualche settimana fa ho incontrato Carlo Rovelli a Rimini. Parlava in pubblico. Speravo di capire qualcosa su quanti – che quantificano la mia quantità di stupidità in materia – materia oscura, entropia, dacché i veri sapienti, oggi, sono i fisici. Niente. Rovelli s’è messo a parlare del suo rapporto con Giacomo Leopardi. Infilzando una sfilza di sagaci banalità, accolte, comunque, dagli applausi della folla. Rovelli è una rockstar della divulgazione, è un po’ l’Alberto Angela della fisica quantistica, e il succo della fama è questo: pigli applausi anche se dici una stronzata. Lo stesso effetto m’ha fatto l’ultimo libro di Rovelli. Il fisico pop, che per spiegarsi usa i Puffi e ricalca le canzoncine di Paul McCarthy, ci dice una cosa molto semplice. Studiando la graniglia infinitesimale che forma il mondo, il tempo non esiste. “Al livello più fondamentale che oggi conosciamo, c’è poco che somigli al tempo della nostra esperienza”. Noi umani, con la pretesa di fare la Storia, non sia che “un effetto di questa grande storia dell’aumento dell’entropia”, in effetti, “invece di molti tempi possibili, possiamo parlare di un solo tempo: il tempo della nostra esperienza”. Siamo a pagina 166, eureka, per arrivare a questo punto conclusivo – risaputo – basta leggere Marcel Proust: è più complicato e frastagliato di Rovelli, ma garantisce una esperienza estetica assoluta. Prima della bella scoperta, Rovelli alterna autentiche ovvietà (“Ogni bambino è unico e particolare, per la sua mamma”; “ci sono sogni che durano attimi dove tutto sembra raggelato per l’eternità”; “molte cose del mondo che vediamo si capiscono se teniamo conto dell’esistenza del punto di vista”) a speculazioni francamente complicate per chi non piglia il caffè con lui all’Università di Aix-Marseille, flirtando con “il teorema di Tomita-Takesaki” o con “le equazioni della gravità quantistica a loop”. In sostanza, Rovelli ci dà l’illusione di essere intelligenti, mentre restiamo gli stessi cretini di sempre. Beh, questo non è un buon servizio al lettore, non è vera ‘divulgazione’, ma un articolato sfottò. Prima di leggere Rovelli, leggetevi Fisica e filosofia di Werner Heisenberg e I quanti e la vita di Niels Bohr, fisici di genio che senza infingimenti retorici, senza profumare il gorgonzola con Chanel number 5, vi spiegano le cose come stanno. L’idea che mi sono fatto è che Rovelli, con questo libro, voglia garantirsi un seggio nel parlamento di cristallo degli intellettuali italiani. Svogliatamente anticattolico – infelice la battutina, “il Buon Dio non ha disegnato il mondo con linee continue: lo ha tratteggiato a puntini con mano leggera come faceva Seurat”, d’altronde per Rovelli sono “assai noiose” le “esclamazioni in stile predicatore evangelico” di Sant’Agostino – il fisico a cui non garba la “voluta oscurità” del linguaggio di Martin Heidegger (che sul tempo aveva capito poco pure lui, prima dell’avvento di Rovelli), farcisce il suo trattato di citazioni tratte da Orazio, da Hugo von Hofmannsthal, da Rainer Maria Rilke, da Sofocle, da Shakespeare, ma soprattutto dalla didattica indù, dal Mahavagga e dal Mahabharata, ad esempio. Più che rendere intelligenti noi, il fisico rivoluzionario (“La Rivoluzione francese è uno straordinario momento di vitalità scientifica, nel quale nascono le basi della chimica, della biologia, della meccanica analitica e di molto altro”) che nella pagina finale del libro cita il suo editore, Roberto Calasso, forse così vuole il contratto, ci mostra quanto è intelligente lui. Gonfio della sua tracotante intelligenza, Rovelli, convinto che “forse una radice profonda della scienza è la poesia”, si piglia l’ultimo capitolo per darsi alla poesia, raccontandoci che “la morte non mi fa paura. Ho paura della sofferenza” – e chissenefrega, mica sei Eraclito – che “amo la vita, ma la vita è anche fatica, sofferenza, dolore” – che novità! – e che la vita, a proposito, è “un grido continuo di queste emozioni”. Se volete la poesia, scansate Rovelli e rivolgetevi a Thomas S. Eliot. “Tempo presente e tempo passato/ sono forse entrambi presenti/ nel tempo futuro e il tempo futuro/ è contenuto nel tempo passato. Se tutto il tempo/ è eternamente presente/ tutto il tempo è irredimibile”. Questo è il celebre attacco dei Quattro quartetti. Forse di tempo ne sa più il poeta del fisico pop Rovelli. Forse la lettura di questo libro è una perdita di tempo.
Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, pp.208, euro 14,00
La carota. Non capisco una cosa. Perché spendono tanti soldi – quando ci sono – in ricerca scientifica, e niente in esperimenti poetici. Se è vero che l’uomo, essenzialmente, è linguaggio e che la quintessenza del linguaggio è la poesia, dovrebbero sorgere come funghi laboratori di ricerca poetica. Invece, niente. La poesia, in Italia, il paese che ha inventato la poesia occidentale moderna, è in mano ai pazzi, ai ricchi, alle persone piene di buoni sentimenti. Forse per questo – protesi a pubblicare i soliti quattro poeti ‘laureati’ – ci siamo drammaticamente dimenticati di Robinson Jeffers, nato 120 anni fa negli Usa e morto nel 1962, “uomo solitario, granitico, più difficile da capire della sua poesia” (Franca Bacchiega). Il personaggio, in effetti, è fascinoso. Figlio di un prof di esegesi del Vecchio Testamento, che fu il suo primo precettore, Jeffers gira l’Europa, studia biologia, astronomia, letteratura antica, ma pure medicina. A 25 anni sposa Una Call Kuster, si ritira dal mondo, mette al mondo due figli e costruisce per la famiglia, presso Punta Caramel, California, Tor House, “una torre interamente costruita con le sue mani, fatta di massi che Jeffers stesso ha trasportato dalla riva del mare”. La casa, per inciso, c’è ancora: pare un incrocio tra una dimora Hobbit e la roccaforte di un re biblico. Poeta ruvido e scontroso, sbalzato dalla disciplina dell’eremitaggio – basta ammirarne il viso, cuneiforme – Jeffers ha un momento di fama nel 1947, con la Medea messa in scena da Judith Anderson, attrice di successo (l’abbiamo vista, per dire, in Rebecca, la prima moglie di Hitchcock). “Se Iddio ha avuto la bontà di darvi un poeta/ Ascoltatelo. Ma per l’amor di Dio lasciatelo in pace finché è vivo; niente feste o premi/ Che l’uccidono”, scrive Jeffers, riconosciuto come il massimo poeta epico nordamericano del Novecento, in Lasciateli in pace. Ora in oblio, i poemi di Jeffers hanno avuto fortuna in Italia: nel 1977 Einaudi pubblica Cawdor, ma è stata Mary de Rachewiltz, la figlia di Ezra Pound – che non garbava troppo a Jeffers – a tradurlo decisamente, dopo gli esperimenti di Gabriele Baldini, Carlo Izzo, Attilio Bertolucci. La bipenne e altre poesie, edito da Guanda nel 1969, è un libro meraviglioso, che converte alle purezze, da ripubblicare. Il poeta, fautore dell’“Inumanismo”, come lo chiama lui, cioè di un atteggiamento responsabile dell’uomo verso il creato e le creature (“Sarebbe ora che la nostra razza incominciasse a pensare da adulta invece che da infante egocentrico e da malata mentale”), prima che fosse di moda, mette a posto i rapporti tra poesia e scienza. “La grande poesia racchiude ed esprime il tutto. Il suo compito è contenere un mondo intero, all’istante, fisico e sensuale, dell’intelletto e dello spirito, della fantasia, in un’unica appassionata formula. La scienza tende a scomporre le cose per scoprirle; seziona, analizza. La poesia invece mette le cose insieme, facendo scoperte egualmente valide e allo stesso tempo creando”. Che il nostro sistemone universitario se ne renda conto.
Robinson Jeffers, La bipenne e altre poesie, Guanda 1969