Il 20 settembre del 1977, sul canale americano ABC, andò in onda una puntata di Happy Days che passò alla storia. Nella scena centrale dell’episodio, ambientato a Los Angeles, Fonzie scommetteva di riuscire a saltare uno squalo bianco sugli sci d’acqua e, trainato da un Richie Cunningham leggermente preoccupato, lo fa, salutato da un’esultanza da stadio da parte degli amici che lo osservavano dalla riva.
La scena in questione spiazzò probabilmente fin da subito un bel po’ di fan, ma fu solo dopo 8 anni circa entrò a piedi uniti nell’olimpo della storia della televisione come una sorta di marchio di infamia per i prodotti televisivi o cinematografici che a un certo punto sbracano. Fu allora, nel 1985, che dopo una intensa chiacchierata tra due compagni di camera all’Università del Michigan — uno era il critico Jon Hein, l’altro il suo amico Sean Connolly — nacque l’espressione “jumping the shark”. Da quel giorno, per definire l’esatto momento in cui una serie televisiva, dopo aver raggiunto l’apice, inizia il declino.
In Game of Thrones di squali non c’è nemmeno l’ombra, ma dopo gli ultimi episodi della settimana stagione della serie difficile non pensare a Fonzie che con la sua bella giacchetta di pelle si fa trainare da Ron Howard e, in una terrificante scena al ralenti, supera lo specchio d’acqua dove lo squalo lo aspetta per papparselo.
La domanda rimbomba nella testa di milioni di persone in queste ore. Che cosa è successo a Game of Thrones in questa settima stagione? Difficile stabilirlo con certezza, anche se di ipotesi molto credibili se ne possono fare più d’una. Quel che è certo è che, all’incirca da quando la serie televisiva ha superato (a destra, senza frecce e strombazzando) la serie di romanzi di George Martin, qualcosa di molto grosso è cambiato nel suo funzionamento, nel suo equilibrio interno e nella gestione della narrazione. Qualcosa di talmente grosso da portare molti dei suoi affezionati fan a dichiarare tutta la propria delusione e a pensare a quel maledetto squalo bianco in Happy Days.
Appiattimento dei personaggi, scelte narrative leggibili da chilometri di distanza, prive di della potenza straniante e della originalità spiazzante delle prime stagioni, scelte troppo orientate a soddisfare la pancia dei fan, gestione spaziotemporale del racconto impazzita, ricorso a spiegoni e forzate ellissi: questa penultima stagione di Game of Thrones, soprattutto nelle ultime due puntate, ha fatto scatenare la maggior parte dei fan che accusano Weiss e Benioff — le due teste che stanno dietro alla versione televisiva del racconto di Martin — di aver mandato tutto in vacca da quando sono “orfani” del romanzo di big George.
È evidentemente molto difficile non essere d’accordo. Esattamente come è molto difficile non pensare con un sospirone ai tempi dilatati, alla complessità delle linee narrative, alla spregiudicatezza dei twist a cui ci aveva abituato la serie nelle precedenti sei stagioni. Eppure, anche solo per il ricordo della sensazione incredibile di aver davanti un organismo narrativo cazzutissimo, arditissimo e imprevedibile, un po’ di rispetto e una minima di riconoscenza a GoT lo dobbiamo.
È per questo che dall’esatto momento in cui, alla fine di quest’ultima puntata, sullo schermo iniziano a scorrere i titoli di coda, al di là di qualsiasi squalo o drago abbiano saltato, la maggior parte dei milioni di telespettatori che stanno seguendo GoT da 6 anni, pur sbuffando, ha iniziato il solito, snervante, conto alla rovescia.
Questa volta girano voci che ci vorranno quasi due anni per vedere le prossime puntate, ma scommetto che quando arriverà il momento di vedere come andrà a finire saremo tutti lì, con quella solita sensazione di chiusura allo stomaco, con la solita ansietta da devastante curiosità. E questa, che lo vogliamo o no, è la più grande vittoria di Game of Thrones, una serie che da giovane ci ha fatto vedere cosa significa avere coraggio nel costruire un prodotto narrativo e che ora, da vecchina che ha imboccato serena il viale del tramonto, si gode tutta la nostra attenzione e il nostro patimento, preparandosi a un finale che, in un modo o nell’altro, agogneremo tutti per mesi e mesi a venire. E scusate se è poco.