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Il bastone.
Stamattina sono stato in Nuova Zelanda. Nel primo pomeriggio mi sono spostato verso la Groenlandia, amo gli spazi contaminati dal ghiaccio. Questa sera penso che andrò sul Monte Vaea, a Vailima, nelle Samoa, a pregare sulla tomba di Robert Louis Stevenson. Google Earth è davvero una figata. Ogni giorno puoi fare il giro del mondo in ottanta click. Ogni strada, ogni brandello di foresta, ogni casa, ovviamente, è muto. Sei tu, dall’oblò della mente, a dare vita alle immagini. Attendo un romanziere in grado di esplorare le infinite possibilità narrative di Google Earth.
Enrico Brizzi, che non azzecca più un romanzo da quando aveva vent’anni – e ora ne ha 43 – da un po’, forse per far cassa, chissà, s’è messo a scrivere guide turistiche. L’ultima guida ci relaziona intorno alle sue “Dodici settimane sul Cammino di Santiago da Torino a Finisterre”. Che differenza c’è tra una guida scritta da Brizzi e una del Touring? Che la guida di Brizzi è inutile al viaggio – mancano le informazioni di massima, ma necessarie al viaggiatore. Ed è narrativamente insapore, deludente. Perché? Perché non c’è una narrazione. Brizzi ci racconta – ma nel libro non dice ‘io’, dice ‘tu’ o ‘voi’, strategia romanzesca che pare nuova ma è abusata, ha fatto grande il Premio Nobel Gao Xingjian, in quel notevole libro di viaggio che è La montagna dell’anima – la sua camminata lungo la via per il santuario di Compostela.
Partenza con una punta di nostalgia per “la Torino del Salone, con Ernesto Ferrero a richiamare le antiche glorie einaudiane”, puntatina su Tav e No-Tav (“il giorno in cui da qui passeranno solo treni veloci, tutta la Val di Susa si trasformerà in un semplice luogo di transito e nessuno avrà più il tempo di amarla”, fa dire Brizzi a un tizio), e sfilza di cose risapute. Brizzi, nel suo tour, con l’ansia onnivora di un Pippo Baudo del free climb, fa una zuppa – indigesta – di tutto un po’: parla di Annibale e di Manzoni, dei Valdesi e di Asterix, del Vangelo di Marco e della Fattoria degli animali di Orwell, del Corriere dei piccoli e dei Pearl Jam, della Guerra di Spagna e dei druidi, e statti zitto per favore, facci godere il viaggio. La bulimia verbale di Brizzi è patologica: pare l’intruso scocciatore che mentre cammini nella foresta, anestetizzato dalla Storia, ti rompe le palle smanettando con il cellulare, ‘hai visto questo, hai visto quell’altro…’. Ad ogni modo, la filosofia del libro è questa: “quel che vi dà gioia non è aprire nuove vie, ma ripercorrerne di vecchie lungo le orme di mercanti, pellegrini e contrabbandieri, uomini d’arme, fuggiaschi e sovrani”; la morale è questa: “ogni pellegrinaggio è una vita in miniatura” – d’altronde, tanto per stare nel paddock del patetico, Brizzi ha annunciato, parecchie pagine prima, che “la vita non ha ancora smesso di stupirti”; la predica dal pulpito è questa: “tutto quello che puoi fare è arginare il caos, tenere indietro la tentazione del cinismo e dello sconforto e sperare nel meglio”.
Ha ragione Brizzi. Anche io speravo nel meglio, almeno in un libro migliore. Questo, invece, è semplicemente un libro infelice. Brizzi non ha capito che i grandi scrittori di viaggio – i migliori? Aleksandr Puśkin, Osip Mandel’stam, Robert Byron – non ti fanno due palle così sul viaggio. Il viaggio è un pretesto. La sostanza è la narrazione, marciare in un racconto.
Il gemello opposto di Brizzi, una specie di Wikipedia per nostalgici di Jack Frusciante (entrate nell’orrore geografico di questa frase: “Oggi Frocalquier è una cittadina di provincia addossata alla collina sulla quale svetta la chissà di Notre-Dame-du-Provence; un tempo lì sorgeva una cittadella, cuore d’una contea indipendente, che rivaleggiava per prestigio con quella di Provenza”, ma dove sta la funambolica furia estetica dello scrittore?) è Federico Pace, che ha fatto del viaggio una sinistra vocazione giornalistica. In Controvento il tipo allinea una sfilza di grandi viaggi compiuti da grandi uomini. C’è il viaggio di Oscar Niemeyer verso Brasilia, c’è quello di Anna Maria Ortese in Africa (indovinate, cos’ha imparato laggiù? “A stare dentro la natura”, ma tu guarda…) e quello di Vincent Van Gogh e quello di Paul Gauguin (il più brutto, ha già detto tutto lui in Noa Noa e Victor Segalen nelle sue memorie) e quello di Frida Khalo e quello di David Bowie (il più banale) e quello di Josif Brodskij dalla Russia verso Auden (il più spudorato, perché il poeta russo, tra i grandi del Novecento, ha raccontato ogni cosa, incomparabilmente, nel saggio Per compiacere un’ombra: leggetelo, per compiacermi).
Il libro, scritto con inchiostro simpatico – ma non ne capisci il senso neppure in controluce – ha un difetto gigantesco. Ogni aggettivo è quello che ci attendiamo dieci pagine prima. Esempio. Albert Einstein è sull’oceano. Secondo voi com’è l’Atlantico? Proprio così, “aggressivo e turbolento”; bisognerebbe creare una cattedra universitaria sull’uso corretto degli aggettivi, contro l’abuso di sofismi retorici. E come v’immaginate l’Irlanda visitata da Samuel Beckett? Avete ragione, “Vento forte, la pioggia, la distesa”. Come vedete, non avete bisogno degli scrittori, che quando viaggiano non sanno vedere oltre il proprio ombelico – o al di là del contratto editoriale appena firmato. Vi basti Google Earth. Ha la stessa densità poetica di Goethe.
Enrico Brizzi, Il sogno del drago. Dodici settimane sul cammino di Santiago da Torino a Finisterre, Ponte alle Grazie, pp.318, euro 14,90
Federico Pace, Controvento. Storie e viaggi che cambiano la vita, Einaudi, pp.172, euro 14,00
La carota.
Diffidate degli scrittori ‘di viaggio’. Se sono grandi, gli scrittori viaggiano con la mente, mica con le gambe. Se sono pessimi, vanno ovunque pur di fare soldi e scrivono reportage che neppure l’analfabeta Adamo quando è stato sbattuto dall’Eden su questa valle di lacrime. Fidatevi, invece, degli esploratori che narrano. Di solito, offrono scritture senza fronzoli né alberi di Natale retorici, piene di stupore, scritte da gente con due palle così. Esempio. Nella bella collana ‘Tusitala’ l’editore Nutrimenti ha radunato sotto il titolo Diari antartici i taccuini dei pionieri del Polo Sud, Robert F. Scott, Ernest Shackleton, Edward A. Wilson. Il brano più bello del mucchio, probabilmente, è di Shackleton, che morì nel 1922, per una trombosi coronarica, in un porto baleniero della Georgia del Sud, isola di ghiacci, nel nulla atlantico – sono censiti 20 abitanti – nel tentativo di ritornare, ossessivamente, in Antartide. “È privilegio di pochi uomini riuscire a vedere una terra mai prima esplorata dall’occhio dell’uomo; con impaziente curiosità non disgiunta da un certo senso di soggezione osservavamo nuove montagne sorgere dal grande spazio sconosciuto che si apriva ai nostri occhi. Nessuno di noi poteva immaginare cosa avremmo trovato nella nostra marcia a sud e quali misteri avremmo svelato; la nostra immaginazione ci faceva volare… Non eravamo che piccoli esseri che avanzavano faticosamente e lentamente nella pianura immacolata piegando le loro deboli forze al tentativo di strappare alla natura segreti da sempre rimasti inviolati”.
Shackleton scrive nel 1909, a guida della Spedizione Nimrod, britannica. Poco dopo, lo seguirà Robert Falcon Scott, decano dei tour antartici – si aggira presso i Poli dagli inizi del Novecento – con la tragica Spedizione Terra Nova. Battuto da Amundsen nell’attracco al Polo Sud – la scoperta accadde nel dicembre del 1911 – Scott e i suoi persero la vita nel gelo, tentando il ritorno alla nave. “Mia cara signora Wilson, se questa lettera Le arriverà, vorrà dire che Bill e io ce ne saremo andati assieme”, scrive Scott alla madre del compagno di avventure, Edward Wilson. “I suoi occhi brillano di uno splendido azzurro speranza e la sua mente è rappacificata nell’accettazione del suo destino, considerandosi parte del grande progetto dell’Onnipotente”. Che commovente altezza in questo ultimo, lucido ricordo del “migliore dei miei compagni e il più sincero degli amici” steso da un uomo sull’apice della fine. Con un certo intuito Filippo Tuena – ottimo lettore e ottimo scrittore – scrive che la famelica ricerca di “un luogo geografico” equivale al “nitore di una bella frase, la perfezione d’una forma artistica”.
Robert F. Scott, Ernest Shackleton, Edward A. Wilson, Diari antartici, Nutrimenti, 2010