BOLOGNA – Dopo oltre quarant’anni di militanza sublimata dal volontariato nelle cucine della festa dell’Unità di Bologna l’addio può essere triste ma risoluto come quello della pensionata Maria, 70 anni, prima tessera del Pci nel 1971 e ultima, del Pd, nel 2016. Oppure l’addio può essere rabbioso e amareggiato come quello di Giulia, 56 anni, insegnante di lettere.
Maria si sente come scissa, tra la sua storia nel partito e la storia del partito stesso. Per la prima volta quest’anno non ha rinnovato la tessera e, sempre per la prima volta, ha deciso di non mettersi a disposizione della festa provinciale del capoluogo emiliano, iniziata in questi giorni e prevista fino al 18 settembre. Dice di essere «stanca di ricevere dai dirigenti pacche sulle spalle che sono solo un modo per tapparmi la bocca, senza nemmeno chiedermi la condivisione degli obiettivi. Nei circoli non c’è più discussione politica, ormai sono solo luoghi dove ci si raccoglie per bande per fare eleggere Tizio o Caio. Non voglio lavorare gratuitamente per comitati elettorali e per una classe dirigente che non è all’altezza del compito e non merita la mia stima».
Maria è solo una tra i tanti. È una ex volontaria delle feste de l’Unità dell’Emilia-Romagna, tra Ravenna, Modena, Bologna, Reggio Emilia, le città dove, storicamente, sono previsti gli appuntamenti di fine estate più importanti. Feste preparatorie in attesa di quella nazionale, dal 9 al 24 settembre, quest’anno a Imola, la cittadina del Bolognese che già nel 2016 aveva rinunciato alla propria e che questa volta aspetta, tra molte incognite, la tradizionale sfilata dei big.
Già, le incognite. Davvero tante. Perché l’era delle diserzioni, partita silenziosamente qualche anno fa, si è trasformata in qualcosa di più: uno smottamento di un pezzo di storia della sinistra emiliana, «in un clima di malessere e scontento diffusi», dice Giulia. E, in una terra che della celebrata roccaforte rossa conserva solo i miti, ora il Pd deve vedersela anche con la concorrenza rappresentata da Articolo 1-Mdp. Concorrenza non ancora pienamente a regime ma già capace di drenare risorse umane ed economiche come ha dimostrato il successo della piccola festa organizzata velocemente, all’inizio di giugno, a Marina di Ravenna, dove la nuova formazione politica ha fagocitato tutto il locale circolo Pd. «E’ stata la prima a livello nazionale di Articolo 1, abbiamo avuto una cinquantina di volontari e tra questi anche ex responsabili delle feste dell’Unità di Ravenna e di Faenza», dice Federica Degli Esposti, coordinatrice territoriale di Mdp. «Un discreto successo in collaborazione con Campo Progressista, tanto che dopo – prosegue Degli Esposti – sono cominciate le repliche». Modena, Parma, solo per fare qualche esempio dell’attivismo di Articolo 1-Mdp, che la loro festa nazionale la faranno a Napoli, alla fine di settembre.
«Nei circoli non c’è più discussione politica, ormai sono solo luoghi dove ci si raccoglie per bande per fare eleggere Tizio o Caio. Non voglio lavorare gratuitamente per comitati elettorali e per una classe dirigente che non è all’altezza del compito e non merita la mia stima»
Ma il fatto è che non basta dare la colpa ai fuoriusciti che in Emilia-Romagna hanno seguito le orme di Pierluigi Bersani e Vasco Errani, ex presidente della Regione. La cinghia di trasmissione tra il Pd e i suoi militanti è sempre più sfilacciata. Con la dissipazione di quel patrimonio, anche culturale, che per decenni ha fatto della regione un serbatoio di voti e delle feste dell’Unità quasi un paradigma, un test per misurare (e confermare) la forza del patto di fiducia, e di fedeltà, tra cittadini e amministratori locali, tra elettori e partito. Un banco di prova lo è ancora, ma al contrario: ora che molti volontari scioperano nulla può più essere dato per scontato. Se ne sono accorti a Modena, la città dell’attuale presidente della Regione Stefano Bonaccini. «L’anno scorso, quando abbiamo organizzato una mostra sui 70 anni dell’evento – rammenta Marcello Mandrioli, responsabile della festa provinciale della città emiliana – bastava guardare le foto della gente che un tempo si accalcava nelle sale durante i dibattiti per comprendere come oggi tutto sia radicalmente cambiato».
Adesso, sempre più spesso, all’appello oltre ai volontari manca persino la politica. È già avvenuto all’inizio dell’estate a Borgo Panigale, quartiere popolare di Bologna, che non ha rinunciato a lotterie e ristoranti ma ha depennato dal programma gli incontri con amministratori o dirigenti, forse anche memore di alcuni flop: l’anno scorso, alla festa del capoluogo emiliano, il sindaco Virginio Merola e il segretario provinciale del partito radunarono solo un centinaio di persone.
«Ho fatto il mio dovere per anni prima di mollare tutto», dice Giulia, che non sopporta più «l’attendismo snervante e l’assenza di analisi politiche. I problemi non vengono mai affrontati e la gestione è affidata sempre ai soliti noti»
Giulia, dimissionaria da ogni carica – era anche membro della direzione provinciale del Pd bolognese – ora che ha voltato le spalle a militanza e volontariato prova rabbia «perché ci ho creduto» ma prova anche amarezza «perché mi sembra di avere di fronte un muro di gomma». A Bologna è necessaria una base di almeno 10mila persone, tra iscritti e simpatizzanti, per assicurare turnazioni di 3mila volontari a sera e oliare a dovere gli ingranaggi dell’organizzazione. Un esercito. Ma il responsabile Fabio Querci si dice «ottimista». Tanto che, secondo lui, persino gli incassi dell’anno scorso – 2,5 milioni solo per la gestione caratteristica – dovrebbero essere confermati e, forse, anche superati.
Al contrario il suo collega Mandrioli ammette le defezioni e dice che gli basterebbe raggiungere i due milioni di introiti, contro i 2,3 del 2016, per considerarsi soddisfatto. Numeri a parte è la provenienza dei volontari che gettano la spugna a mostrare maggiormente la distanza siderale tra la base del partito e la sua dirigenza. Ciò che si sta frantumando è la colonna vertebrale delle feste, quello zoccolo duro costituito dagli ex elettori ed iscritti del Pci che per decenni hanno consentito l’autofinanziamento. E che ora, tra riluttanza o diserzione vera e propria, non riescono più a perdonare ciò che appare ormai come un vizio irredimibile: la continua deriva autoreferenziale. «Ho fatto il mio dovere per anni prima di mollare tutto», dice Giulia, che non sopporta più «l’attendismo snervante e l’assenza di analisi politiche. I problemi non vengono mai affrontati e la gestione è affidata sempre ai soliti noti. Ho fatto propaganda per la legge sulla buona scuola, mi sono presa gli insulti dei colleghi e le mie proposte di miglioramento sono finite nel nulla. C’è chi continua a lavorare gratuitamente alle feste solo per amicizia. Ma anche questa molla per me non è sufficiente. Il Pd non mi rappresenta più».