«Un’intervento sotto l’egida dell’Onu ci sarà». Mieczyslaw Boduszynski, ex diplomatico americano e assistente professore di Politica e Relazioni Internazionali a Pomona College, ne è convinto: la conditio sine qua non per risolvere la tortuosa situazione politica in Libia sta innanzitutto nella riconciliazione delle fazioni che ne caratterizzano il conflitto. Fazioni presenti sia all’interno del governo presieduto da al-Sarraj, un esecutivo riconosciuto dalla comunità internazionale ma solcato da scissioni e correnti, sia interne alla Libia, un Paese diviso a metà e governato a Tobruk dal generale Kalifa Haftar. Un contesto in cui le Nazioni Unite dovranno intervenire con una risoluzione «chiara nel ruolo e negli intenti», superando il freno di alcune potenze come «la Russia, che ha interessi crescenti in Libia rispetto al passato» e chiarendo una volta per tutte la posizione della comunità internazionale sul fronte libico. Comunità internazionale che in questo contesto ha il dovere di ritrovare «la stessa compattezza politica che nel 2011 permise di rovesciare il regime di Mu’ammar Gheddafi».
In un recente articolo pubblicato sulla rivista di politica internazionale Foreign Affairs, a New York, scritto a quattro mani con la Professoressa Sabina Henneberg (esperta di nord Africa al Johns Hopkins University School of Advanced International Studies di Washington), l’ex diplomatico statunitense ha evidenziato come l’intervento dell’occidente in Libia dovrà essere collegiale, non unilaterale. «In questo senso è interessante però il cambio di rotta da parte di Emmanuel Macron», spiega a Linkiesta. Boduszynski considera la decisione del presidente francese di riunire al-Sarraj e Kalifa Haftar sotto uno stesso tetto a Parigi, necessaria per dare il via a una nuova fase, ma anche mossa dal sapore di deja-vu: «La nuova politica estera di Macron mi ricorda l’atteggiamento interventista di Nicolas Sarkozy nel 2011, quando trovò in David Cameron un fedele alleato contro Gheddafi». Un passo indietro che tradisce le aspettative d’Europa, che l’Italia aveva riposto nel leader francese dopo la sua vittoria su Marine Le Pen: «C’è una evidente continuità in termini di atteggiamento, non solo con Nicolas Sarkozy, ma anche ad esempio con la linea imposta dal suo predecessore François Hollande, che scelse la strada interventista per gestire la situazione in Mali» sottolinea l’ex diplomatico, che vede ora possibile una ricostituzione «dell’asse franco-tedesco con Angela Merkel, qualora la cancelliera dovesse essere rieletta in autunno».
Se la situazione elettorale in Germania in questo senso sembra chiara (Merkel è data in netto vantaggio sul suo avversario Martin Schulz), le prospettive libiche appaiono invece più nebulose. Secondo l’accordo stipulato tra al-Sarraj e Haftar, il Paese dovrebbe andare al voto entro la primavera del 2018. Anche in questo caso, però, si tratterebbe di un ritorno al passato: «Nel 2012 ero in Libia durante le elezioni politiche, e ricordo quanto entusiasmo ci fosse per quella tornata elettorale: ho realizzato solo dopo però che allora, come oggi, mancavano le condizioni politiche per andare al voto. Non ci sono elezioni senza una Costituzione e non c’è stabilità post-elettorale senza uno Stato: oggi in Libia mancano sia una che l’altro».
«Trump valorizza molto il rapporto personale con i capi di stato e con Emmanuel Macron pare ci sia grande feeling istituzionale. L’incontro del 14 luglio tra i due mi ha ricordato un po’ quelli che l’ex Presidente George W. Bush teneva con l’ex Presidente brasiliano Lula: non mi sorprenderebbe quindi vedere gli Stati Uniti a sostegno delle politiche di Macron in Libia»
L’Italia è stata per mesi al centro dei negoziati con il governo di Tripoli e la missione promossa dal governo Gentiloni su richiesta del primo ministro al-Sarraj, ma criticata dal vice premier Fathi Al-Mejbari, permetterà l’approdo di navi, aerei e militari italiani a supporto dell’esecutivo libico. «Una scelta simile a quella che portò alla “Missione Alba” nel 1997, in Albania», sottolinea l’ex diplomatico statunitense, che nota però in questo caso una sostanziale differenza tra passato e presente: «In Albania c’era un esecutivo indebolito dalle divisioni interne, ma legittimato dentro i suoi confini a governare. In Libia non è così, nonostante l’esecutivo al-Sarraj sia riconosciuto dalla comunità internazionale», il che rende gli accordi bilaterali stretti dal governo di Tripoli altrettanto legittimi.
Non più tardi di un mese fa, il Capo di Stato alla Difesa Claudio Graziano, a margine di un incontro istituzionale al Palazzo di Vetro a New York, era stato chiaro: la missione in Libia era già pronta, ma prima doveva passare dall’approvazione del Governo Gentiloni e da quella delle Nazioni Unite. La prima è arrivata. Mentre sulla seconda persino l’ex diplomatico fatica a prendere una posizione: «Un intervento Onu ci sarà, ma è difficile stabilire oggi in quali termini si esprimerà il Consiglio di Sicurezza». Anche perché le frizioni non mancano. Lo scorso 20 giugno, in occasione della “Giornata Mondiale del Rifugiato”, a margine di una conferenza stampa, il segretario generale Antonio Guterres era stato critico con l’accordo sui migranti sottoscritto tra Roma e Tripoli. A una domanda sul mancato rispetto delle norme internazionali relative ai profughi da parte del governo italiano, negli accordi con al-Sarraj, Guterres aveva ammesso che «se l’accordo viene realizzato con un Paese come la Libia, che al momento non è in grado di accogliere e rispettare i diritti dei rifugiati, lo Stato che chiede un accordo del genere non rispetta le norme internazionali». Il portavoce dell’Onu aveva poi precisato che quello di Guterres non fosse un riferimento all’Italia, ma i dubbi rimangono.
Sullo sfondo di questo campo di battaglia in cui molti combattono senza dichiararlo e dove tutti attendono le mosse altrui prima di agire, il professore vede un’Italia sempre più in bilico, anche per i forti interessi che intrecciano il nostro Paese nei business di gas e petrolio: in questo contesto non è stato un caso l’incontro tra l’amministratore delegato Eni Claudio Descalzi e il premier libico al-Sarraj, giunto immediatamente dopo gli incontri istituzionali con Gentiloni e Minniti. Allo stesso tempo però non è nemmeno un caso che la Francia abbia ripreso il controllo delle trattative in Libia proprio ora, complice la debolezza dell’Europa: «Il presidente Emmanuel Macron sta giocando sulla divisione dell’Unione Europea per ritagliarsi questo nuovo ruolo in Libia: credo che Bruxelles debba cambiare atteggiamento». In particolar modo sul tema dell’immigrazione: «Dopo aver esternalizzato per anni le responsabilità della questione al regime di Gheddafi, nessuna ricetta proposta finora ha avuto successo», ha scritto e ripete Mieczyslaw Boduszynski, ricordando le fallimentari missioni Eufor Libya ed Eubam Libya, e quella attualmente in corso (Eunavfor Med – Operation Sophia), simile per contenuto e sostanza «al trattato che il governo Berlusconi aveva stretto con Gheddafi nel 2008». Una Bruxelles debole sull’immigrazione per l’ex diplomatico Usa è inspiegabile, soprattutto se si considera che nella sua storia «l’Europa ha già dimostrato di saper lavorare insieme per gestire il fenomeno migratorio: credo che le crisi risolte in Kosovo, Macedonia e Albania ne siano brillanti esempi». Rispetto ad allora, però, è cambiato il contesto: «L’influenza della Russia è più forte alle porte dell’Europa, e l’approccio da parte di alcuni Stati membri è capovolto: basti pensare a Polonia e Ungheria che agli inizi degli anni ’90 erano due Paesi traino di quella che sarebbe dovuta essere la nuova Europa. Oggi non è così».
In questo scenario, a fare la voce grossa sia all’interno delle Nazioni Unite che in Europa potrebbero essere a sorpresa gli Stati Uniti di Donald Trump: «La politica di Obama nella regione non si era focalizzata solo sull’intervento militare del 2011 – ricorda l’ex diplomatico. Vennero attuate azioni volte alla stabilizzazione della Libya Central Bank e misure a protezione della National Oil Corporation, la compagnia petrolifera nazionale in Libia». Tutte politiche che al momento sembrano essere mantenute dall’attuale amministrazione statunitense: «Trump valorizza molto il rapporto personale con i capi di stato e con Emmanuel Macron pare ci sia grande feeling istituzionale – sottolinea ancora il professore Boduszynski -. L’incontro del 14 luglio tra i due mi ha ricordato un po’ quelli che l’ex Presidente George W. Bush teneva con l’ex Presidente brasiliano Lula: non mi sorprenderebbe quindi vedere gli Stati Uniti a sostegno delle politiche di Macron in Libia». Anche in questo caso, un ritorno a un passato non ancora pienamente dimenticato.