Il bastone
Prima regola: niente applausi. Davanti a una grande poesia non si applaude. Si resta zitti, storditi. Ci si inginocchia. Su una cosa, anzi, su due, ha ragione Guido Catalano, il Jerry Calà della poesia italiana. La prima è questa: “A 17 anni ho deciso che volevo diventare una rockstar/ poi ho capito che forse non ce la facevo/ e ho ripiegato su poeta professionista vivente”. Il concetto è espresso in Curriculum Vitae. Curriculum Vitae dovrebbe essere una poesia. Ma non è una poesia. Perché? Perché non basta andare a capo per chiamare una poesia ‘poesia’. Al posto di mettere la virgola o la punteggiatura, Catalano va a capo. Che idiozia.
Nella terzina citata sopra manca il ritmo, la musica, un misero bagliore di senso lirico per giustificarla come una ‘poesia’. Detto questo, Catalano ha ragione. Ogni poeta, infatti, ha sognato di essere una rockstar.
I poeti sono anime fragili ritirate nel rifugio delle proprie ossessioni. Hanno bisogno di applausi. Vogliono la fama, ardentemente. Se non ce l’hanno, di solito, si suicidano. Per questo, tutti i poeti si sognano il successo di Catalano, che ha un tour di letture pubbliche chilometrico, è amato dai grandi editori, idolatrato da pessimi lettori, lo legge pure Matteo Renzi.
La seconda cosa giusta che dice Catalano è che gli ‘addetti ai lavori’ della letteratura italiana sono, con rispetto parlando, degli imbecilli, e che nessuno può permettersi di dire che cosa è poesia e cosa no. Vero. Di fronte a versi come: “Come sei vestita?/ Hai un vestito leggero colorato?/ Verde?/ Blu?/ Un maglione pesante?/ Che scarpe porti?/ Stai fumando?/ Sei nuda?/ Com’è la tua bocca?”, che è una stanza di Chiudi bene le finestre; al cospetto dell’incipit di Adelaide che fa “Adelaide, figuratevi/ credeva nell’amicizia tra uomo e donna/ ci credeva davvero”, davvero siamo certi che questa non è poesia.
A confronto con Catalano un sms qualsiasi ha la dignità di un sonetto di Shakespeare, una buonanima che si squaglia di buoni sentimenti facendo rimare ‘cuore’ con ‘amore’ è degno del Nobel per la letteratura, la sgangherata Carmen Consoli pare Emily Dickinson e Biagio Antonacci l’erede di Giacomo Leopardi.
Il quale, il feroce Giacomino affamato di fama, aveva già capito tutto un tozzo di tempo fa. “Oggidì viene a essere peggiore la condizione dei libri perfetti, che dei mediocri”, ragion per cui, “l’affaticarsi di scrivere perfettamente è quasi inutile alla fama”. Il problema, ecco, non è Catalano, continui pure a catalogare le sue scemate andando a capo ogni tanto, ma la massa dei lettori-bue, che vuole sollazzarsi, distrarsi, divertirsi, svagarsi. Divertirsi viene dal latino devertere, che sta per ‘voltarsi dall’altra parte’. Ecco, la poesia fa il contrario. Non imbocca illusioni. Costringe il vostro sguardo monocolare ad ammirare gli abissi; vi strappa gli occhi gettandoli nell’aldilà.
Chiaro questo, divertiamoci. Gli happening poetici, i concerti di poesia, hanno una tradizione nobile. Dai futuristi italiani ai dadaisti del Cabaret Voltaire, le bettole d’inizio secolo erano ostaggio dei poeti in vena di clownerie. Pigliate Vladimir Majakovskij. Metteva a soqquadro tutte le osterie di Mosca, aveva uno stuolo di fan manco fosse Mick Jagger, e cantava “Io so/ che un chiodo del mio stivale/ è più raccapricciante della fantasia di Goethe!// Io,/ che ho la bocca d’oro più d’ogni altro/ e con ogni parola/ rigenero l’anima/ e do un onomastico al corpo/ vi dico:/ il minimo granello di polvere d’un vivo/ vale più di quello che farò e che ho fatto!”. Un vero sollazzo.
Nel 1974 Rai 2, in prima serata, ore 20,45, sparò Carmelo Bene con Bene! Quattro diversi modi di morire in versi. Carmelo leggeva testi pirotecnici di Majakovskij, Sergej Esenin, Aleksandr Blok, Boris Pasternak. Una bellezza da schiattare. Le registrazioni sono in onda su YouTube. Gratis. Così, risparmiate i 18 euro del libro di Catalano – eccessivi – e diventate più bravi, buoni e intelligenti.
Guido Catalano, Ogni volta che mi baci muore un nazista, Rizzoli, pp.322, euro 18,00
La carota
I poeti, di solito, non cantano a squarciagola. Vivono più intensamente di tutti – come le rockstar – ma al posto del palco hanno la scrivania. O un paio di ginocchia orchestrate come una vela. “Amo la mia vita e ne sono soddisfatto. Non ho bisogno di indorature. Una vita senza mistero, senza intimità, una vita messa in mostra tra il luccichio degli specchi, è per me inconcepibile”, scrive Boris Pasternak. Per questo, di solito, i poeti grandi passano sotto silenzio. Si riparano, vivono ritirati – e quando sono nel mondo, si muovono in modo scomposto, da aristocratici idioti.
Cosa succede oggi nella poesia italiana? Che una nouvelle vague di bravi poeti, tra i 35 e i 45 anni, si sta facendo largo con pudica destrezza. Alberto Pellegatta, ad esempio, milanese, classe 1978, ha appena pubblicato per la rinnovata collana ‘Lo Specchio’ Mondadori – ma non basta una nuova copertina a far primavera… – Ipotesi di felicità. Pellegatta, già ‘benedetto’ da tempo come erede dei poeti ‘laureati’, ha scritto un libro vero, da leggere. Anche se il libro è decisamente discontinuo, c’è di meglio, può fare di meglio.
Resto dell’idea che il libro di Isacco Turina (1976), I destini minori, pubblicato dal piccolo, tenace editore Il ponte del sale, sia uno dei più belli usciti quest’anno e nell’ultimo lustro. Di fronte a un fascio di versi come questo, “Al maestro di olivi e di battaglie/ al maestro sempre giovane/ una gabbia partorì le prime ali” (A Hölderlin), non possiamo che stare zitti e fare elmi e scudi e corazze con la nostra saliva, trangugiando cecità.
Anche Federico Italiano (1976) è autore di poderosa, picaresca intensità. Autore di libri decisivi come Nella costanza (Edizioni Atelier, 2003) e L’invasione dei granchi giganti (Marietti, 2010), per Feltrinelli ha radunato alcuni testi nell’antologia Un esilio perfetto, che potete leggere subito, visto che è in formato ebook. Io sono un fan di Italiano: forse il vero grande poeta italiano ‘europeo’ – dopo aver insegnato a Monaco di Baviera, ora abita a Vienna, traduce dal tedesco, dall’inglese e dallo spagnolo – del nuovo millennio. Leggerlo è un fremito estetico assoluto.
Dopo l’esordio nel 2000 con Il privilegio della vita, invece, Riccardo Ielmini (1973) è tornato tra noi con Una stagione memorabile. Il libro, risolto e commosso, ha versi pieni di sapienza biblica (“fiorirà la curva dei gelsomini/ nell’irreparabile notte,/ alla soglia del grande buio/ ci riporterà sgomenti all’inizio”) e trasuda vita, cangiante, terrestre, cosmica (“siamo tuoni sontuosi sparpagliati in spilli/ nell’ossigeno elettrico, siamo i bravi ragazzi,/ e tu, tu sei il nemico, e veniamo a svegliarti// nel cuore della notte, coi nostri tamburi/ foderati di poesia, e scritto un solo verso/ redenti balliamo nudi, in balìa del cuore”). Forse questo sarà il libro più importante del prossimo millennio. Per il momento, però, il libro non esiste, non ha editore, né ora né sul filo dell’orizzonte. Ho avuto il privilegio di leggerlo, in privato. Anche questo è poesia.
Riccardo Ielmini, Una stagione memorabile (libro che non ha ancora un editore)